L’omicidio colposo “da prescrizione farmacologica”: risponde della morte del paziente il medico che prescrive incautamente un’associazione di farmaci all’obeso debilitato dalla dieta

L’omicidio colposo “da prescrizione farmacologica”: risponde della morte del paziente il medico che prescrive incautamente un’associazione di farmaci all’obeso debilitato dalla dieta
02 Aprile 2019: L’omicidio colposo “da prescrizione farmacologica”: risponde della morte del paziente il medico che prescrive incautamente un’associazione di farmaci all’obeso debilitato dalla dieta 02 Aprile 2019

Con la sentenza n. 8086/2019, la Cassazione penale ha deciso, respingendolo, il ricorso di un “medico endocrinologo e diabetologo” condannato per il reato di omicidio colposo in relazione alla morte di una paziente afflitta da obesità alla quale, “nel corso di una dieta dimagrante”, aveva prescritto svariati farmaci, alcuni dei quali vietati dal Ministero della sanità, implicanti gravi rischi per la paziente stessa, debilitata per aver perso 40 kg. in sei mesi, senza tener conto di tali rischi ed “omettendo di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari” per valutare l’opportunità di prescriverli in associazione tra loro.

Era accaduto che alcuni dei farmaci precitati “assunti nelle ore immediatamente precedenti il decesso, determinavano un'azione aritmogena sul miocardio ed uno squilibrio idroelettrico che cagionavano la morte” della paziente.

Insomma, l’incauta ed imperita prescrizione farmacologica, secondo l’ipotesi accusatoria accolta dalla Corte d’appello di Roma aveva cagionato la morta della paziente.

Il ricorrente censurava questa conclusione, addebitando alla sentenza impugnata di aver a torto ritenuto sufficienti a fondare la prova del nesso causale tra la condotta contestatagli e la morte della paziente gli elementi raccolti dalla perizia medico-legale esperita, adducendo al riguardo un’articolata varietà di argomentazioni critiche.

Altrettanto ampia ed articolata è la disamina di tali censure formulata dalla Corte di cassazione che, in particolare, non ravvisa aporie nella motivazione con la quale la Corte d’appello, quanto al nesso causale, aveva ritenuto che “la morte della [paziente] sia stata provocata dall'assunzione prolungata della fendimetrazina, in associazione ad altre sostanze farmacologicamente attive che hanno innescato un processo fatale in una paziente che presentava già fattori di rischio”.

In proposito essa osserva che la Corte territoriale aveva correttamente formulato “il giudizio controfattuale”, dal quale aveva tratto la giustificata conclusione dell’“esistenza del nesso di condizionamento”, e cioè la valutazione che “l'evento risultava evitabile”, come i periti avevano affermato «con elevato grado di probabilità logico-razionale»..

A questo riguardo la sentenza ricorda che, ai fini penali, “il nesso causale può ritenersi provato ogni qual volta, sulla base di leggi di copertura, possa affermarsi che, se il soggetto si fosse astenuto da una data azione quell'evento non si sarebbe verificato (reato commissivo proprio)… l'evento sarebbe stato impedito” (SS.UU. n. 30328/2002, sentenza “Franzese”)

Ricorda la Corte che la valutazione da compiersi in tema di causalità si pone della “prospettiva… di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale” e che “la probabilità logica di cui parlano le Sezioni Unite è categoria concettuale radicalmente distinta da quella della probabilità statistica” perché “esprime, in ambito epistemologico, il concetto che la constatazione del regolare ripetersi di un fenomeno non ha significato solo sul terreno statistico, ma contribuisce ad alimentare l'affidamento sulla plausibilità della generalizzazione desunta dalla osservazione dei casi passato”.

Né la Cassazione ha ritenuto contestabile l’accertamento della colpa dell’imputato compiuto dalla Corte d’appello, in relazione alla “durata del trattamento farmacologico (prescrivibile per un periodo non superiore a tre mesi), per averlo prescritto pur conoscendo i rischi che lo stesso poteva comportare e per aver somministrato alla paziente, unitamente alla fendimetrazina, altre sostanze farmacologicamente attive senza considerare lo stato psico-fisico della paziente (che aveva perso circa 7 kg di peso al mese) ed omettendo di acquisire le informazioni amnestiche e di disporre accertamenti clinici strumentali per valutare l'opportunità del trattamento farmacologico prescritto”.

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