Non è reato cessare il pagamento dell’assegno al figlio divenuto maggiorenne

Non è reato cessare il pagamento dell’assegno al figlio divenuto maggiorenne
18 Gennaio 2019: Non è reato cessare il pagamento dell’assegno al figlio divenuto maggiorenne 18 Gennaio 2019

IL CASO. Con sentenza in data 23.09.2014, il Tribunale di Ascoli Piceno aveva condannato Tizio per il reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2 c.p., per “avere omesso di versare le somme stabilite dal giudice in favore della figlia” Caia.

La decisione era stata confermata dalla Corte d’appello di Ancona.

Avverso tale provvedimento Tizio aveva, quindi, proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento, per quattro motivi.

Col primo, Tizio aveva eccepito la “violazione di legge penale ed il vizio di motivazione per avere la Corte d'appello erroneamente omesso di riqualificare il fatto ai sensi dell'art. 388 cod. pen.”.

Col secondo ed il terzo motivo, egli aveva, invece, dedotto la “violazione di legge penale ed il vizio di motivazione, per avere i giudici di merito errato nell'applicare il disposto dell'art. 570 cod. pen.”, in quanto “per un verso, … non [aveva] mai tenuto alcun comportamento contrario all'ordine ed alla morale della famiglia, né si [era] mai sottratto agli obblighi di assistenza relativi alla responsabilità genitoriale; per altro verso, … la Corte d'appello [aveva] ritenuto integrato il reato sebbene la figlia maggiorenne [avesse] abbandonato il domicilio domestico, per libera scelta, a seguito del decesso della madre”.

Inoltre, la difesa aveva rilevato che “l’inadempimento [aveva] riguardato tre sole mensilità, rispetto alle quali avrebbe dovuto essere applicata la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen.”, che “all'epoca del fatto, la persona offesa [era] maggiorenne ed [aveva] raggiunto una condizione di autosufficienza economica, sicché faceva difetto lo stato di bisogno” e che “l'imputato si [trovava] in condizione di non poter adempiere agli obblighi ignorando il luogo di dimora della figlia - persona offesa”.

Infine, con l’ultimo motivo, Tizio aveva dedotto la “violazione di legge penale ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 124 cod. pen., per avere la Corte d'appello erroneamente omesso di dichiarare l'improcedibilità del reato per tardività della querela”.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione penale, con l’ordinanza n. 1342/2019, ha ritenuto “fondato” il ricorso “in relazione al secondo ed assorbente motivo, con il quale il ricorrente si duole della ritenuta integrazione del reato contestato sul presupposto che la figlia beneficiaria dell'assegno di mantenimento fosse ormai maggiorenne all'epoca dei fatti”.

Nel farlo, la Corte di legittimità ha colto l’occasione per rilevare come, “secondo il chiaro enunciato normativo, l'art. 570, comma secondo n. 2, cod. pen. punisca - con le pene stabilite dal primo comma applicate congiuntamente - colui il quale ‘fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro (...)’”, sicché “non integra il reato in parola la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza a figli maggiorenni non inabili a lavoro, anche se studenti”.

Ciò, almeno per due ordini di ragioni.

Anzitutto perché “l'onere di prestare i mezzi di sussistenza, penalmente sanzionato, ha … un contenuto soggettivamente e oggettivamente più ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civile, potendo sussistere la fattispecie delittuosa di cui all'art. 388 cod. pen. qualora ricorrano i requisiti previsti da tale norma (segnatamente il compimento di atti fraudolenti diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi)”.

Inoltre, “l'inabilità al lavoro rilevante ai sensi del citato art. 570, comma secondo, che impone al genitore l'obbligo di corrispondere i mezzi di sussistenza anche al figlio maggiorenne va intesa, in base alla definizione contenuta negli artt. 2 e 12 della I. n. 118 del 1971, come totale e permanente inabilità lavorativa”.

In base a tali principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, non sussistessero i “presupposti dell'incriminazione in oggetto”.

Infatti, “alla data dell'inizio del delitto permanente (17 ottobre 2009, giusta contestazione), la figlia era ormai maggiorenne (essendo nata il 4 dicembre 1985)” e “dalla ricostruzione in fatto tratteggiata in motivazione, risulta[va] chiaro che la ragazza non era inabile al lavoro, tanto che svolgeva un lavoro con contratto part-time (v. pagina 4 della sentenza)”.

La Corte di Cassazione ha, quindi, annullato senza rinvio la sentenza impugnata, perché “il fatto non sussiste[va]”.

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