L’interpretazione del contratto resa nel giudizio di merito, se non giuridicamente errata, non è sindacabile in sede di legittimità

L’interpretazione del contratto resa nel giudizio di merito, se non giuridicamente errata, non è sindacabile in sede di legittimità
12 Febbraio 2020: L’interpretazione del contratto resa nel giudizio di merito, se non giuridicamente errata, non è sindacabile in sede di legittimità 12 Febbraio 2020

Con l’ordinanza del 9 gennaio 2020, n. 189, la Cassazione, interpellata in merito all’interpretazione di un contratto di assistenza professionale, conferma il proprio consolidato orientamento secondo il quale “quando di una clausola negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra”.

Oggetto del contendere era la misura del compenso spettante all’avvocato per l’attiva giudiziale svolta in favore del cliente.

In particolare, risultava controverso se nell’applicazione del criterio dei minimi della tariffa forense le parti dovessero prendere a riferimento il valore indeterminabile o quello del corrispondente valore effettivo del bene della vita oggetto del giudizio.

Il giudice del merito ha privilegiato quest’ultima interpretazione del contratto, avallando la tesi sostenuta dal cliente e così inducendo gli avvocati, che la ritenevano un’interpretazione errata, a ricorrere in Cassazione, lamentando un errore di diritto.

La Corte, nel respingere il ricorso ha ribadito che “il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti”.

Ha, dunque, proseguito, ricordando che “ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea - anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente - la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità”.

Se ne ricava, pertanto, che l’interpretazione di un contratto prescelta dal giudice del merito è censurabile in sede di legittimità soltanto in due casi: per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale enunciati agli artt. 1362 e segg. c.c. o qualora la motivazione risulti illogica o contraddittoria, quanto all’applicazione di tali disposizioni, al punto di averne fatto una “falsa applicazione”.

A tal fine non è, dunque, sufficiente l'astratto riferimento ai canoni legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione di quelli in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato.

La circostanza non è di poco rilievo, soprattutto alla luce della riforma operata dal d.lgs n. 150/2011, che non ha solo modellato il procedimento per il recupero del compenso dell’avvocato sulla falsariga di quello di cui agli artt. 702bis e segg., ma ha altresì previsto che l’ordinanza resa all’esito del procedimento non sia appellabile, ma solo ricorribile in Cassazione (omisso medio), qualora ne sussistano i presupposti.

Ne consegue che l’interpretazione resa dal giudice di prime cure del contratto d’opera professionale dell’avvocato, se non contraria alle norme di interpretazione dei negozi nel senso sopra specificato, risulta, di fatto, non impugnabile.

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