La vicenda che ha investito la Suprema Corte si è consumata, come purtroppo spesso avviene, tra le pareti domestiche.

Il marito della vittima veniva raggiunto dalla misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai reati di cui agli artt. 572 e 609 bis c.p., contestati come commessi in danno della moglie.

Ricorre il difensore in Cassazione lamentando la violazione dell’art. 274 c.p.p. in ordine ai criteri di scelta della misura, lamentando che, in particolare, non fosse stata fatta offerta adeguata spiegazione circa la denegata possibilità di applicare la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari.

La Corte di Cassazione, sez. III Penale, con sentenza n. 20019/20, ha confermato  l’ordinanza impugnata, che aveva ritenuto inidonea l’abitazione coniugale, dal momento che proprio in quella casa erano avvenute le violenze e, dunque, il concreto ed attuale pericolo di reiterazione non poteva essere scongiurato, posto che la donna, prima che fosse disposta la misura cautelare, si era soltanto temporaneamente allontanata dall’abitazione familiare, chiedendo ospitalità ai propri genitori, senza però abbandonare definitivamente il domicilio domestico, presso il quale avrebbe potuto anche fare rientro.

Disponendo in modo contrario si sarebbe illegittimamente limitato il diritto della persona offesa di tornare in possesso dell’abitazione familiare, senza mettere a rischio la propria incolumità.