Ultime dalla Cassazione: per il risarcimento del danno da perdita parentale è tutto da rifare

Ultime dalla Cassazione: per il risarcimento del danno da perdita parentale è tutto da rifare
11 Maggio 2021: Ultime dalla Cassazione: per il risarcimento del danno da perdita parentale è tutto da rifare 11 Maggio 2021

La Terza Sezione civile della Corte di cassazione, dopo un decennio in cui (a partire da Cass. civ. n. 12408/2011) aveva eletto le tabelle del Tribunale di Milano a criterio di riferimento per i Giudici di merito, qualificandole come “parametro di conformità della valutazione equitativa alla disposizione di legge” (Cass. civ. n. 8532/2020), e cioè al disposto dell’art. 1226 c.c., idoneo come tale a garantire l’uniformità dei risarcimenti liquidati nell’intero territorio nazionale, sembra aver intrapreso un’opera di smantellamento dei suoi punti-chiave.

Già la sentenza n. 25164/2020, dopo aver affermato l’autonoma risarcibilità del danno morale, ne aveva tratto la conseguenza per cui dette tabelle, per quanto riguarda i danni non patrimoniali da invalidità permanente, “pervengono (non correttamente) all'indicazione di un valore monetario complessivo”, costituito dalla somma aritmetica dei risarcimenti dovuti per il danno biologico e quello morale.

Ciò che aveva prodotto, come conseguenza, nel 2021, una nuova “edizione” della relativa tabella secondo un criterio che, accanto al “valore monetario complessivo” del danno non patrimoniale, aveva scomposto i suoi addendi relativi al danno biologico e a quello morale.

Ora la sentenza n. 10579/2021 critica ab imis il sistema liquidativo previsto dalle tabelle ambrosiane per la liquidazione del risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.

Dopo una lunga premessa di carattere teorico sul significato che le “clausole generali” (come quella che sarebbe espressa dall’art. 1226 c.c.)rivestirebbero nei sistemi di civil law, che pare affetta da più di qualche equivoco (come quello per cui il “bilanciamento” delle norme costituzionali rappresenterebbe la ratio delle norme, e non già il loro limite di legittimità), la Corte formula una critica radicale dei criteri fondativi della tabella in questione, strutturata, com’è noto, sull’indicazione del valore medio del risarcimento della perdita parentale e di un valore massimo di “personalizzazione” di quest’ultimo.

Secondo la Corte, infatti, solo un “sistema” a “punto variabile” sarebbe idoneo a garantire l’"uniformità” e la “prevedibilità” delle decisioni quantificative del risarcimento e assolverebbe quindi alla “funzione per la quale è stata concepita… a garanzia del principio di eguaglianza”.

Ciò che non avverrebbe, invece, per “la tabella meneghina”, che non seguirebbe “la tecnica del punto variabile”, ma si limiterebbe “ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una significativa differenza”, tale da costituire un “differenziale” troppo ampio, sì da costituire solo “una perimetrazione della clausola generale di valutazione equitativa del danno e non una forma di concretizzazione tipizzata quale è la tabella basata sul sistema del punto variabile”.

In proposito la Suprema Corte insiste nell’affermare che una “forbice” così ampia, indicando “soltanto un minimo ed un massimo” del risarcimento liquidabile, lascerebbe “ancora aperto il compito di concretizzazione giudiziale della clausola” generale dettata dall’art. 1226 c.c. e verrebbe perciò a rappresentare, a sua volta, “una sorta di clausola generale, di cui si è soltanto ridotto, sia pure in modo relativamente significativo, il margine di generalità”, vanificando così la funzione propria dei sistemi tabellari, che sarebbe quella di realizzare un “effetto di fattispecie”.

A tal fine sarebbe, invece, indispensabile una tabella “basata sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione”.

Secondo il Giudice di legittimità, “in particolare, i requisiti che una tabella siffatta dovrebbe contenere sono i seguenti: 1) adozione del criterio "a punto variabile"; 2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti; 3) modularità; 4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi”.

Si tratta, invero, dei parametri indicati nella tabella per il risarcimento del danno parentale predisposta dal Tribunale di Roma (che però la sentenza non nomina mai), ad eccezione (per dimenticanza o per altra, non espressa ragione) di quello di cui al punto e), relativo alla “presenza all'interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi)”.

La Corte precisa che “resta… fermo che, ove la liquidazione del danno parentale sia stata effettuata non seguendo una tabella basata sul sistema a punti, l'onere di motivazione del giudice di merito, che non abbia fatto applicazione di una siffatta tabella, sorge nel caso in cui si sia pervenuti ad una quantificazione del risarcimento che, alla luce delle circostanze del caso concreto, risulti inferiore a quella cui si sarebbe pervenuti utilizzando la tabella in discorso, o comunque risulti sproporzionata rispetto alla quantificazione cui l'adozione dei parametri tratti da tale tabella avrebbe consentito di pervenire.

E, quindi, “il criterio per la valutazione delle decisioni adottate sulla base del precedente orientamento … quello dell'assenza o presenza di sproporzione rispetto al danno che si sarebbe determinato seguendo una tabella basata sul sistema a punti”, fermo restando che “ove una tale sproporzione ricorra, il criterio di giudizio” per la valutazione della liquidazione concretamente effettuata dal Giudice di merito “riposa nell'esame della motivazione della decisione

Di qui il principio di diritto così enunciato:

Al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella".

I presupposti della decisione appaiono, a dir poco, discutibili e la soluzione adottata assai poco convincente sul piano teorico, così come le sue conseguenze pratiche sono potenzialmente paradossali rispetto alle finalità (di ”uniformità” e “prevedibilità” delle decisioni di merito) che la Corte si prefigge.

Sotto il primo profilo la sentenza si fonda su un chiaro equivoco.

E cioè sull’assunto, palesemente erroneo, per cui la tabella milanese relativa al risarcimento del danno parentale, a differenza di quella inerente al danno non patrimoniale da invalidità permanente, non si fonderebbe (mutatis mutandis) su un “sistema di punto variabile”.

Il fraintendimento in cui è incorsa la Suprema Corte è reso palese dal ripetuto riferimento alla forbice (connotata da un troppo “ampio differenziale”) fra “un tetto minimo ed un tetto massimo” che la tabella milanese prevedrebbe.

Al contrario, nei “criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla integrità psico-fisica e dalla perdita – grave lesione del rapporto parentaledell’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che accompagnano le tabelle in questione, è ben precisato cheil danno in esame non è in re ipsa e non esiste, pertanto, un “minimo garantito” (essendo “la parte gravata dagli oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale subito”), per cui “il valore monetario, indicato in Tabella nella prima colonna, è quello denominato “base”.

E subito si ribadisce che “i valori, di cui alla prima colonna, esprimono la “uniformità pecuniaria di base” cui fanno riferimento le note sentenze della Corte costituzionale n. 184/1986 e della Cassazione n. 12408/2011”, che è cosa ben diversa rispetto a quel “tetto minimo” che la Suprema Corte ha inteso ravvisarvi.

Mentre il valore che figura nella “seconda colonna” è il massimo dell’“aumento personalizzato” del suddetto valore-base della tabella, al quale il Giudice deve provvedere ove il danneggiato “alleghi e rigorosamente provi circostanze di fatto da cui possa inferirsi, anche in via presuntiva, un maggiore sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale.

Da ciò deriva un evidente parallelismo fra la tabella relativa al danno da perdita parentale, strutturata su un valore risarcitorio base e su un altro corrispondente al massimo di personalizzazione possibile, e quella del danno non patrimoniale da invalidità permanente, laddove, accanto ad un valore-base di punto figura un percentuale “massima” (il 50% in più) di personalizzazione del risarcimento liquidabile.

In entrambi i casi, invero, si tratta di una tabella strutturata sulla base della “tecnica del punto variabile”, al contrario di quanto afferma la Cassazione per la prima delle due.

La vera differenza tra la tabella milanese e quella romana, quindi, consiste non già nell’individuazione dei criteri sulla base dei quali può essere “personalizzato” il valore risarcitorio base del danno da perdita parentale (che sono sostanzialmente analoghi), bensì nel fatto che la prima consente al Giudice del merito una motivata elasticità applicativa, mentre la seconda predetermina non solo le circostanze di fatto rilevanti ai fini della personalizzazione, ma pure la loro incidenza percentuale ai fini del risarcimento concretamente dovuto.

E’ ben vero che il primo sistema consente al Giudice del merito una cospicua discrezionalità nell’interpretare l’incidenza delle singole circostanze di fatto nel calcolo dei risarcimento dovuto (oltre all’individuazione di ulteriori circostanze rilevanti rispetto a quelle considerate dai suddetti “criteri orientativi”), cui è correlato però un puntuale obbligo di motivazione.

Ma questa discrezionalità caratterizza, seppure in modo diverso, anche il secondo sistema, poiché questo obbliga il Giudice a quantificare il risarcimento secondo criteri di calcolato predeterminati, senza alcun margine di discrezionalità (se non in casi eccezionali), per converso esonerandolo da ogni obbligo di motivazione.

Ma, in tal modo, la discrezionalità si sposta dalla singola sentenza ai criteri redazionali della tabella e, specificamente, alla misura del “punteggio” aprioristicamente attribuito a ciascuna circostanza di fatto da questa indicata come rilevante, con l’aggravante che tale valorizzazione “matematica” non risulta in alcun modo motivata dagli estensori della tabella e si traduce perciò non già in una scelta discrezionale, ma in un mero arbitrario.

Sotto il profilo pratico, poi, è facile pronosticare che una simile decisione determinerà notevole incremento del contenzioso di secondo grado e di legittimità per supposte o reali “sproporzioni” tra risarcimenti liquidati sulla base della tabella del Tribunale di Milano e quelli previsti o prevedibili da una non meglio precisata “tabella basata sul sistema a punti.

Incertezza quest’ultima tutt’altro che ipotetica, posto che i ricorrenti, nel caso specifico, si dolevano proprio del fatto che la Corte territoriale non avesse applicato, anziché quella milanese, la tabella del Tribunale di Roma, alla quale, tuttavia, la Suprema Corte, nonostante la preferenza espressa per una tabella “a punti”, ha accuratamente evitato di fare riferimento, così formulando un’allusione del tutto indeterminata.

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