Doveri informativi del medico e della struttura sanitaria e consenso informato del paziente all’attività diagnostica e terapeutica

Doveri informativi del medico e della struttura sanitaria e consenso informato del paziente all’attività diagnostica e terapeutica
27 Marzo 2007: Doveri informativi del medico e della struttura sanitaria e consenso informato del paziente all’attività diagnostica e terapeutica 27 Marzo 2007

di Giampaolo MiottoPremessaL’importanza che il tema del “consenso informato” ha progressivamente assunto negli ultimi decenni è indubbiamente un sintomo significativo dei mutamenti manifestatisi nel rapporto  medico – paziente in questo arco di tempo, ed al tempo stesso rappresenta un indice di alcuni elementi di conflitto che caratterizzano questa evoluzione. La valorizzazione delle esigenze informative del paziente è avvenuta per effetto •    dei cambiamenti del contesto sociale, civile e culturale, •    della crescita delle istanze bioetiche nel mondo della medicina, •    della pressione prodotta dalla progressivo sviluppo del contenzioso giudiziario in materia e della conseguente evoluzione della giurisprudenza in materia. Date queste premesse, ritengo che una riflessione sul “consenso informato” debba soffermarsi quanto meno su tre diversi aspetti: •    il significato del “consenso informato” nella deontologia medica e sotto il profilo giuridico e le sue implicazioni pratiche in materia di responsabilità medica e delle strutture sanitarie (prime fra tutte quella delle Aziende U.L.S.S.), •    il contenuto dell’informazione da somministrare al paziente ai fini della prestazione di un valido consenso all’attività diagnostica e terapeutica, •    gli strumenti idonei a precostituire una valida prova dell’informazione somministrata e del consenso ottenuto, ai fini della sua produzione in giudizio, nella malaugurata ipotesi che in proposito insorga un contenzioso col paziente o con i suoi congiunti.Il significato del “consenso informato” del paziente nella deontologia medicaL’evoluzione del significato e dell’importanza del consenso del paziente al compimento dell’atto medico si può cogliere in modo immediato e quanto mai eloquente analizzando le diverse versioni del Codice di deontologia medica succedutesi negli ultimi trent’anni. L’articolo 39 del Codice del 1978 stabiliva che “il medico non deve intraprendere alcun atto medico che comporti un rischio per il paziente senza il consenso valido del malato o delle persone da cui questo è rappresentato se è minorenne o incapace, salvo lo stato di necessità e sempre che il paziente non sia in grado di dare un valido consenso”. La lettura di questa disposizione ci fa notare con immediatezza due cose: •    anzitutto il “consenso” del paziente viene richiesto solo per gli atti diagnostici e terapeutici che comportino un rischio, e non per tutti, •    in secondo luogo il Codice si preoccupa esclusivamente del fatto che il paziente esprima un consenso “valido”, e cioè prestato da persona capace di intendere e di volere e quindi giuridicamente efficace ai fini di legittimare l’atto medico, ma non prescrive affatto che esso sia anche un consenso “informato” e cioè che venga espresso da un paziente reso consapevole delle implicazioni dell’atto cui deve sottoporsi. L’articolo 30 del Codice del 1978, inoltre, stabiliva che “una prognosi grave o infausta può essere nascosta al malato ma non alla sua famiglia”, legittimando così il comportamento del medico che, in tal caso, tacesse, dissimulasse o financo mentisse al proprio paziente in merito alle sue reali condizioni di salute. Il dovere di verità, così escluso nei riguardi del paziente, veniva invece affermato nei confronti dei familiari, sui quali il medico doveva trasferire l’onere di una verità insostenibile dall’interessato. Le preoccupazioni “terapeutiche” della linea di condotta così legittimata sono evidenti, ma la loro distanza dalla sensibilità attuale (anche in relativamente ai diritti di privacy del paziente) è altrettanto chiara. Ad un decennio di distanza, l’art. 40 del Codice deontologico del 1989 estende l’obbligo del consenso a tutti gli atti medici, ivi compresi quelli privi di rischio, e precisa che esso deve riguardare non solo l’attività terapeutica, ma pure quella diagnostica, facendo tuttavia riscorso al concetto di “consenso implicito”: “il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica terapeutica senza il valido consenso del paziente, che, se sostanzialmente implicito nel rapporto di fiducia, deve essere invece consapevole ed esplicito allorchè l’atto medico comporti rischio e permanente diminuzione dell’integrità fisica”. In sostanza, per gli atti diagnostici e terapeutici privi di rischi il consenso si ritiene implicito nel rapporto di fiducia già instaurato col paziente, mentre per gli altri si prescrive un consenso “esplicito” ed anche “consapevole”, termine ambiguo (la consapevolezza può esser riferita alla volontà di prestare il consenso, così come alla qualità del consenso prestato), ma nel quale può scorgersi l’embrione del “consenso informato”. E’ chiaro come tali disposizioni, nel loro complesso, riflettono una concezione ippocratica / paternalistica del rapporto medico – paziente, connotata da un lato da un’assoluta predominanza del principio di beneficenza dell’attività medica e dall’altro da un affidamento totale del paziente nei confronti del curante, concetti entrambi assai distanti dalla sensibilità dei nostri giorni. E’ anche in ragione di questo cambiamento culturale che con la successiva versione del Codice, quella del 1995, si verifica un radicale mutamento, destinato a consolidarsi con la versione del 1998, che dedica un intero Capo (il IV) alla disciplina dell’”informazione e consenso”. L’articolo 30 (“informazione al cittadino”), in particolare, prevede: “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta... Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”. All’art. 32 (“acquisizione del consenso”), poi, si legge: “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona, è integrativa e non sostitutiva del processo informativo di cui all’art. 30”. All’art. 34 (“autonomia del cittadino”) è, invece, stabilito il principio per cui “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale ,alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona”. Sostanzialmente identico è il contenuto del Capo IV del Codice di deontologia medica del 2006 (artt. 33-38). Le nuove norme attuano una rivoluzione copernicana del quadro di riferimento deontologico preesistente, a partire dal fatto che il prioritario interesse dei Codificatori non è nemmeno rivolto all’ottenimento del consenso, ma al dovere di informazione del medico, prospettato come strumentale al consenso stesso e quale condizione imprescindibile della sua validità. Il dovere di informazione inerente allo stato di salute del paziente, all’atto medico proposto, alle sue conseguenze, ai suoi rischi, alle possibili alternative, prima nemmeno contemplato fra gli obblighi deontologici del medico, irrompe nel Codice di deontologia, venendo codificato nel primo articolo del Capo IV, prioritariamente rispetto allo stesso dovere di ottenere il consenso del paziente. L’ovvia correlazione di tale dovere col diritto di autodeterminazione del paziente viene sottolineata dall’attuale art. 35 del Codice, laddove per ogni “attività diagnostica e/o terapeutica” si prescrive la necessità di acquisire un consenso non solo esplicito, ma anche “informato”. Queste osservazioni ci inducono a riflettere come la stessa espressione “consenso informato” sia, in realtà, fuorviante laddove continua a porre l’accento sul dato del consenso all’atto medico, quasi che la relativa informazione ne sia un accessorio, mentre la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi piuttosto sull’”informazione” necessaria a che il consenso venga responsabilmente prestato, come peraltro la dottrina giuridica e la giurisprudenza non perdono occasione di sottolineare. Senza informazione adeguata, infatti, non può esservi un valido consenso: questo è il principio basilare che caratterizza l’intera problematica di cui stiamo discutendo, sia sotto il profilo deontologico che sotto quello giuridico. In questa prospettiva il consenso non costituisce più l’espressione di un fideistico affidamento alle scelte del curante, ma rappresenta il frutto di un processo cognitivo che deve necessariamente precedere quello volitivo e la conseguente manifestazione della volontà del paziente. Il Codice deontologico, nella formulazione attualmente in vigore, ci consente di cogliere altri elementi importanti ai fini di tratteggiare i connotati dell’attività di informazione propedeutica alla manifestazione del consenso. Dall’articolo 33, infatti, apprendiamo che l’informazione: •    deve essere completa, dovendo riguardare l’intero scenario in cui si situa la scelta diagnostica o terapeutica proposta al paziente, e non già solo diagnosi, prognosi, modalità operative e rischi dell’accertamento o della terapia consigliata, ma anche le “eventuali alternative – diagnostiche e terapeutiche” e le “conseguenze” delle varie scelte che il paziente può compiere, comprese quelle che deriverebbero dal rifiuto dell’atto medico propostogli; •    deve, nei limiti del possibile, adeguarsi alle “capacità di comprensione” del paziente, in relazione alle sue concrete condizioni soggettive, in modo da facilitare il più possibile da parte sua la percezione dello scenario sottopostogli; •    deve essere aperta al dialogo col paziente, mettendo a sua disposizione tutte le risposte alle sue ulteriori richieste di notizie ed alle sue preoccupazioni; •    deve sostanziarsi anche in un processo maieutico orientato a “promuovere... l’adesione alla proposte diagnostico-terapeutiche” che il curante ha formulato nell’interesse del paziente, non potendo il medico abdicare al principio di beneficenza che qualifica la sua missione professionale in nome di un astratto neutralismo; •    deve essere ovviamente veritiera, ma deve altresì implicare un’appropriata prudenza nel comunicare “prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza”: in questi casi, escluso il diritto di mentire al paziente ed altresì quello di palesare invece le sue reali condizioni di salute ai familiari senza il suo esplicito consenso, il Codice si preoccupa di sottolineare come il diritto all’informazione non possa comunque prevalere su quello alla salute (se non addirittura su quello alla vita stessa), come direbbe un giurista; informazioni di questo tipo costituiscono un peso che non tutti sono in grado di sopportare, specie se debilitati dall’età, dalle proprie vicende personali e/o dalla malattia, e possono interferire gravemente col progetto terapeutico perseguito; quest’ultimo rilievo apre uno dei problemi pratici più gravi dell’intera tematica del consenso informato, sul quale ritornerò in seguito. Dal complesso delle anzidette disposizioni deontologiche, infine, si coglie chiaramente come l’attività informativa del curante ed il consenso del paziente dovrebbero situarsi all’interno di un rapporto di fiducia che tuttavia non costituisce più il motivo per escludere la necessità del consenso (del quale si richiede il ogni caso l’”esplicitazione”, anche per le attività “non rischiose”), ma l’”ambiente” relazionale in cui il dialogo tra medico e paziente possa svolgersi nelle condizioni più idonee a favorire in quest’ultimo la miglior comprensione possibile della propria situazione personale, delle proprie prospettive di diagnosi e cura e la maggior condivisione delle scelte operative propostegli dal curante. A fronte di questa attività informativa, pertanto, il consenso del paziente, nell’ambito delle norme deontologiche, si presenta oggi non più come mera adesione alla decisione del medico, ma come espressione saliente del principio bioetico di autonomia, venendo a costituire l’atto finale di un processo decisionale condiviso, nel quale si incontrano tutela della salute e rispetto della libertà della persona. Alla luce di questo nuovo significato del consenso all’atto medico, il Codice si preoccupa di sottolineare come il consenso non sia sostitutivo dell’informazione ad esso propedeutica ovvero che senza adeguata informazione non si ha valido consenso, come si evince dall’art. 35, laddove si precisa che la “manifestazione documentata della volontà”, resa cioè per iscritto, non può essere “sostitutiva del processo informativo” che ho dianzi descritto. L’espressione del consenso in forma scritta, richiesta dal Codice deontologico in determinati casi, è quindi finalizzata a rendere maggiormente consapevole il paziente della rilevanza dell’atto volitivo che così manifesta, e non a svilire la sostanza dell’obbligo informativo che il medico deve puntualmente adempiere anche in questo. In altre parole: il dialogo col paziente non può essere eluso sottoponendogli un modulo da sottoscrivere, poichè il modulo può avere solo la funzione di documentare il contenuto dell’informazione che il curante somministra al paziente nel colloquio personale e non può, quindi, sostituirsi a quest’ultimo. Il modulo non è mai sostitutivo del colloquio personale e, sotto il profilo deontologico, la sua pura e semplice predisposizione non può ritenersi sufficiente ad adempiere il dovere di informazione che grava sul medico, rilievo questo che, come vedremo, trova puntuale riscontro nella giurisprudenza.Il “consenso informato” nella dottrina giuridica e nella giurisprudenzaIn campo giuridico da tempo costituisce patrimonio condiviso di dottrina e giurisprudenza il principio per cui il compimento di qualsiasi atto medico deve essere autorizzato dal consenso del paziente, che per essere validamente espresso necessita di formarsi in modo consapevole e, pertanto, sulla base di un’adeguata informazione. Al riguardo è indiscusso che sussista un vero e proprio obbligo giuridico a carico del medico operatore e della struttura sanitaria per la quale questi eventualmente espleti la sua attività. Tale principio è ben sintetizzato nella massima giurisprudenziale di una decisione della Cassazione Civile: “La validità del consenso è condizionata alla informazione, da parte del professionista dal quale è richiesto, sui benefici, sulle modalità in genere, sulla scelta tra diverse modalità operative e sui rischi specifici (anche ridotti...) all’intervento terapeutico” (Cass. Civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. ULSS n. 12 Ancona). In proposito è ormai superata l’impostazione che qualificava il consenso del paziente come “consenso dell’avente diritto” (art. 51 c.p.) al compimento dell’attività medica, mentre oggi si riconosce l’“autolegittimazione” di quest’ultima, in quanto attività di interesse pubblico eseguita a tutela di un bene costituzionalmente garantito, come quello della salute (art. 32 Cost.), ma il consenso del paziente è stato ritenuto egualmente indispensabile per l’esecuzione non arbitraria di qualsiasi atto medico, in quanto espressione di un diritto soggettivo del paziente stesso. Rimane, invece, quanto mai dibattuto il tema di quale sia la natura di tale diritto e la fonte del correlativo obbligo di informazione che grava sul medico curante e sulla struttura sanitaria. Da un lato vi è chi ravvisa nell’obbligo di informazione una espressione del principio di buona fede da osservare nelle “trattative e nella formazione del contratto” previsto dall’art. 1337 cod. civ., la cui violazione implica pertanto una responsabilità precontrattuale e, dunque, di natura prettamente extracontrattuale. Alcuni autori e molte decisioni sostengono che all’anzidetta responsabilità precontrattuale si aggiungerebbe quella derivante dalla violazione degli artt. 13 Cost. (inviolabilità della libertà personale) e 32 Cost. (tutela del diritto alla salute), nonchè dell’art. 33 della legge n. 833/1978 (divieto di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori al di fuori dei casi normativamente previsti), tale da integrare una violazione di diritti soggettivi e, quindi, anch’essa fonte di responsabilità extracontrattuale. Dall’altro vi è chi, invece, sostiene la natura contrattuale dell’obbligo di informazione, cui il medico e l’ente sanitari sarebbero tenuti in esecuzione di un contratto già concluso fra le parti, sostenendo che non si tratti di un mero obbligo accessorio rispetto all’obbligazione principale  consistente nell’eseguire ex lege artis la prestazione medica, ma di una vera e propria obbligazione autonoma, al cui inadempimento peraltro, ovviamente, consegue la responsabilità contrattuale del soggetto inadempiente. La stessa giurisprudenza di Cassazione oscilla fra la tesi della responsabilità “contrattuale” e quella della responsabilità “extracontrattuale”, che nella giurisprudenza di legittimità appare tuttora decisamente maggioritaria ed è stata anche di recente riproposta in numerose sue decisioni della Terza Sezione Civile della Cassazione. Il dibattito giurisprudenziale a questo riguardo appare, dunque, tutt’altro che prossimo ad esaurirsi e non riveste un significato meramente teorico, ma presenta risvolti pratici di notevole importanza, specialmente in ordine alla problematica dell’onere della prova. Se, infatti, la responsabilità per l’omessa o carente informazione si ritenesse di natura extracontrattuale, l’onere di provare il fatto omissivo in questione graverebbe sul danneggiato, ovvero sul paziente, il quale dovrebbe dimostrare di non aver ricevuto l’informazione necessaria, ma se, al contrario, di responsabilità contrattuale si trattasse, il paziente potrebbe limitarsi a lamentare l’inadempimento dell’obbligazione informativa e competerebbe a chi doveva somministrarla (medico e/o struttura sanitaria) l’onere di provare il contrario, e cioè di aver fornito le informazioni necessarie al caso, com’è pacifico in giurisprudenza. La differenza tra queste due prospettive non è di poco conto. Ponendosi dal punto di vista del medico e della struttura sanitaria, infatti, la necessità di provare di aver esaurientemente adempiuto ai propri obblighi di informazione pone l’esigenza di precostituire mezzi di prova adeguati allo scopo. E’ stata proprio questa esigenza a determinare nella prassi il ricorso a moduli finalizzati a raccogliere e documentare il consenso prestato dal paziente, fatto questo che ha tuttavia ingenerato diffusi malintesi sulle finalità di tale strumento: il modulo, infatti, come ho già detto, deve essere considerato solo come un mezzo di documentazione del contenuto dell’informazione somministrata al paziente e del consenso da questi prestato, e non già come un espediente burocratico per sottrarsi al dialogo informativo col paziente. Tale rilievo è ormai ricorrente nella giurisprudenza di merito: “Lede il diritto di autodeterminazione del paziente in ordine alla propria salute, ed è conseguentemente tenuta a risarcire il danno esistenziale ex art. 2059 c.c., la struttura sanitaria che, pur avendo fatto sottoscrivere al ricoverato il modulo per il consenso informato, non fornisce adeguate informazioni in merito ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili all'intervento chirurgico, in relazione anche alla natura dell'operazione e al livello culturale ed emotivo del paziente” (Tribunale Venezia, 04 ottobre 2004, M.P. c. Usl n. 13, in Danno e resp. 2005, 863). “La firma di un eventuale modulo prestampato non può mai ridursi ad atto formale, teso in via prioritaria a precostituire una dichiarazione di esonero di responsabilità; la sottoscrizione di quei moduli dovrebbe invece costituire il momento finale, di revisione e ripensamento del dettagliato processo informativo che il professionista avrebbe dovuto svolgere per rendere edotta e consapevole la paziente della decisione che si sarebbe assunta autorizzando le cure” (Tribunale Milano, 18 giugno 2003, - , Giustizia a Milano 2003, 51). Anche ai fini della prova in giudizio (oltre che sotto il profilo deontologico, come abbiamo visto), pertanto, il modulo non conta nulla, se non documenta la sostanza di un processo informativo realmente ed esaurientemente attuatosi. Per quanto lo “stato dell’arte” della giurisprudenza sia tutt’altro che stabile e definito, mi sembra degno di nota che gran parte della dottrina, molte decisioni di merito e la stessa Cassazione Civile, ai fini della problematica in esame, abbiano valorizzato il già citato articolo 13 della Costituzione, derivando direttamente dall’inviolabilità della libertà personale che esso prevede il fondamento stesso del “consenso informato”. Oggetto di tale libertà è, quindi, anche il diritto del singolo a decidere “liberamente”, e perciò consapevolmente, in ordine ad ogni attività che coinvolga il proprio corpo e la propria psiche. La corrispondenza di questo principio giuridico con quello bioetico di autonomia mi sembra quanto mai significativa.Le conseguenze della violazione del dovere di informazioneNon meno divise sono la dottrina e la giurisprudenza sulle conseguenze che la violazione del dovere di informazione produce sul piano della responsabilità civile. In questa sede non è possibile riassumere, nemmeno per sommi capi, gli argomenti addotti a sostegno delle varie tesi formulate in proposito, che mi limiterò pertanto ad enunciare anche allo scopo di far comprendere quali possano essere le ricadute economiche del contenzioso in materia, che appare in progressiva crescita. A grandi linee, gli orientamenti giurisprudenziali possono riassumersi in due posizioni: •    quella delle sentenze che ritengono sussistente un danno risarcibile, in caso di violazione del dovere di informazione o di assenza del consenso al compimento dell’atto medico, solo se a quest’ultimo sia conseguito un “aggravamento delle condizioni di salute” del paziente, e ciò a prescindere dal fatto che l’atto medico “sia stato eseguito correttamente o meno”: poichè l’atto medico in questione era suscettibile di generare complicanze, anche se correttamente eseguito, e di queste il paziente non era stato informato (e non aveva conseguentemente rilasciato un consenso valido ed efficace) le conseguenze dell’atto in questione vengono poste a carico del medico e/o della struttura sanitaria che ha violato l’obbligo di informazione; •    quella delle sentenze per le quali, invece, la sola violazione del dovere di informazione o l’assenza di consenso viola il diritto di autodeterminazione del paziente previsto dall’art. 13 della Costituzione e produce un danno che è in re ipsa (non ha bisogno di essere provato), costituito dalla illecita privazione della libertà di scelta consapevole da parte del paziente; poichè la libertà di scelta rappresenterebbe un bene giuridico autonomo, il cui pregiudizio implicherebbe sempre e necessariamente il risarcimento del danno, a prescindere dall’esito del trattamento diagnostico o terapeutico eseguito; secondo questo orientamento, pertanto, la violazione dei doveri di cui si discute implica sempre e necessariamente il risarcimento del danno; all’interno di questa linea di pensiero vi sono, poi, decisioni che reputano risarcibile il solo danno da violazione del diritto di autodeterminazione e non anche quello biologico e morale causato dall’esito  sfavorevole dell’atto medico ed altre che, invece, affermano la risarcibilità pure di quest’ultimo. Esaminando nel loro complesso queste due diverse impostazioni possiamo cogliere con immediatezza due osservazioni: •    per il giudice civile, in caso di violazione del diritto al “consenso informato” è  irrilevante che l’atto medico non validamente autorizzato sia stato compiuto del tutto correttamente, perchè quella violazione costituisce una autonoma fonte di responsabilità, a prescindere da qualsiasi errore o negligenza nel compimento dell’atto diagnostico o terapeutico effettuato; •    non vi è consenso in giurisprudenza sul fatto che la mancanza di un “aggravamento delle condizioni di salute” del paziente esoneri l’operatore e/o la struttura sanitaria da responsabilità, perchè, secondo alcune decisioni, anche in questo caso sussiste un danno da “privazione del diritto all’autodeterminazione”, che deve essere in ogni caso risarcito, ciò che non è, invece, secondo altre decisioni. Le conclusioni che possiamo trarre dall’esame di questo scenario giurisprudenziale, ancora in fase evolutiva e decisamente non stabilizzato, è che la violazione dei doveri di cui stiamo discutendo, nel caso di contenzioso giudiziario col paziente o con i suoi congiunti, espone il medico e la struttura sanitaria al rischio di essere condannati al risarcimento del danno anche per somme molto rilevanti ed anche nell’ipotesi che l’atto medico sia stato correttamente eseguito. Questo vale, ovviamente, anche per i casi che io chiamerei di “consenso informato apparente”, in cui l’adempimento dei doveri informativi risulti comprovato solo da un modulo (magari dal contenuto generico e non circostanziato), il cui contenuto non corrisponda a quello dell’informazione effettivamente somministrata al paziente.Cenni sulla prassi forense in materiaQueste considerazioni di per sè sole dovrebbero indurre medici e strutture sanitarie ad una diversa valutazione della problematica, anche perchè il ricorso alla violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente diviene sempre più frequente nelle cause civili. E’, infatti, prassi sempre più diffusa quella per cui nelle azioni di risarcimento del danno per responsabilità medica agli addebiti di imperizia o negligenza per il compimento di un qualche accertamento o trattamento si affianchi quello relativo alla mancanza di un valido consenso informato. In molte cause del genere, anzi, esaurita l’istruttoria della causa ed espletata la rituale consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, risulta evidente l’assenza di qualsiasi imperizia e negligenza, ma emerge con eguale chiarezza la mancanza di un valido consenso o l’insufficienza della prova in merito al contenuto delle informazioni somministrate al paziente e, quindi, alla loro adeguatezza rispetto al caso. In altri casi l’accertamento medico-legale dimostra che l’aggravamento delle condizioni di salute del paziente non è di matrice iatrogena, ma è dipeso da una complicanza dell’intervento chirurgico o da un effetto collaterale del trattamento terapeutico, ma non è provato che di quella complicanza o di quell’effetto collaterale il paziente sia stato informato o è addirittura certo che non abbia ricevuto alcuna informazione in proposito. Si badi che, a volte, si tratta di interventi o trattamenti imposti da un quadro clinico di indiscutibile gravità e che, in sostanza, hanno preservato la vita stessa del paziente, eppure questi si duole in giudizio della complicanza o dell’effetto collaterale che ha dovuto sopportare: la logica dell’uomo comune suggerirebbe che il sacrificio è comunque valso la pena, se il disturbo di cui il paziente si lamenta è stato provocato da un atto medico che gli ha salvato la vita, e ciò a prescindere dal fatto che egli fosse stato informato del relativo rischio, ma, come abbiamo visto, la giurisprudenza non accoglie questo modo di pensare.La giurisprudenza penalePer completare questo rapido excursus giurisprudenziale è necessario dar conto dell’orientamento formatosi in sede penale, laddove la violazione del diritto al “consenso informato” ha assunto da tempo un autonomo rilievo. Si è, infatti, consolidata una giurisprudenza di legittimità per la quale “il reato di lesioni personali sussiste anche quando il trattamento arbitrario eseguito a scopo terapeutico abbia esito favorevole, e la condotta del chirurgo sia di per sè immune da ogni colpa , non potendosi ignorare il diritto di ognuno a privilegiare il proprio stato attuale” (Cass. Pen., 11.7.2001). Per la Cassazione penale, infatti, “non è attribuibile al medico un generale "diritto di curare", a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di "soggezione" su cui il medico potrebbe "ad libitum" intervenire, con il solo limite della propria coscienza” (Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572). Sotto il profilo psicologico, inoltre, la giurisprudenza penale connota l’atto medico compiuto in assenza di un valido consenso dell’interessato come atto doloso (e non colposo, come avviene invece in caso di errata o negligente condotta professionale), per cui il medico che se ne rende responsabile deve rispondere dei reati di omicidio preterintenzionale e di lesioni volontarie (ben più gravi di quelli di omicidio e lesioni colpose). Ovviamente rimane sempre legittima, sia sotto il profilo penale che ai fini civilistici, l’attività medica posta in essere, in assenza di consenso del paziente, nei casi in cui questi non sia in grado di esprimerlo. In alcuni casi di rifiuto esplicito del consenso all’atto medico invece la giurisprudenza della stessa Cassazione penale non è univoca. Alcune decisioni, infatti, sembrano far sopravvivere degli spazi di autonomia per così dire assoluta del medico, e specialmente del chirurgo, annoverando tra le eccezioni al principio generale che ho appena enunciato non solo il “caso di trattamenti obbligatori "ex lege"” e quello “in cui il paziente non sia in condizione di prestare il proprio consenso”, ma anche l’ipotesi che il paziente “si rifiuti di prestarlo e d'altra parte, l'intervento medico risulti urgente ed indifferibile al fine di salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute” (Cass. Pen. n. 1572/2001 citata): quindi, anche in caso di rifiuto del consenso, il medico sarebbe legittimato ad intervenire per sottrarre il paziente a morte certa o ad un altrettanto certo “grave pregiudizio alla salute”. Altre decisioni, invece, pur ammettendo che il medico possa intervenire anche in assenza del consenso del malato, negano che egli possa farlo quando il paziente manifesti un esplicito rifiuto: “In tema di attività medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui all'art. 3 l. 28 marzo 2001 n. 145, con la quale è stata ratificata la convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte; in tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non - nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia - il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all'intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all'art. 582 c.p.” (Cassazione penale , sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446). La contraddittorietà delle due decisioni da ultimo citate si può cogliere facilmente, il che genera gravi perplessità, soprattutto per quei medici che si trovino ad operare in condizioni di urgenza. Non solo: la prima decisione che, in determinati casi, mostra di ritenere legittimo l’intervento eseguito pur in presenza di un esplicito rifiuto del paziente, si pone in contrasto con l’espresso disposto dell’art. 35 del vigente Codice di deontologia medica che impone al medico di “desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi...in presenza di documentato rifiuto di persona capace” e ciò in quanto non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”. Si tratta di dubbi gravi che la Cassazione dovrebbe esser chiamata a sciogliere, con una pronuncia chiara delle Sezioni Unite quanto mai opportuna ed urgente.Dovere di informativo e contenuto dell’informazione da somministrare al pazienteStabilito che l’informazione del paziente finalizzata al rilascio di un suo valido consenso all’atto medico rappresenta un preciso dovere sia sotto il profilo deontologico che per l’ordinamento giuridico e chiarito il significato del “consenso informato”, rimane da stabilire quale debba essere il contenuto dell’informazione da comunicare a tal fine. Premesso che non esiste una normativa che specifichi il contenuto ed i limiti del dovere informativo, va osservato che lo stesso Codice di deontologia medica, al riguardo, si esprime in maniera assai sintetica, mentre la dottrina giuridica e la giurisprudenza si limitano ad enunciare dei criteri generali, con tutti i limiti di un approccio esclusivamente teorico al problema. Il tentativo di costruire un quadro di riferimento per la struttura sanitaria e per l’operatore che in concreto, tutti i giorni, deve assolvere il compito di “informare” i pazienti non è, quindi, facile. Al riguardo i principi generali cui deve ispirarsi l’attività informativa e le sue “modalità” di svolgimento possono desumersi da quanto già ho esposto. Riassumendo, si può dire che l’attività informativa: •    è indispensabile per il compimento di qualsiasi attività diagnostica e/o terapeutica; •    deve essere veridica; •    deve essere sempre somministrata mediante colloquio personale col paziente, del quale il modulo non è in alcun modo sostitutivo; •    deve adattarsi alle capacità di comprensione del paziente e soddisfare le sue richieste di ulteriore informazione. Il tentativo di ricostruire i suoi contenuti, invece, può prendere le mosse dall’esame delle norme deontologiche e della giurisprudenza, dalle quali si desume che una completa informazione del paziente debba riguardare quanto meno: •    la diagnosi, •    la prognosi, •    la descrizione delle modalità dell’accertamento diagnostico, dell’intervento chirurgico o del trattamento terapeutico da eseguire, comprese le sue fasi preparatorie e quelle successive che siano “suscettibili di metodologie diversificate di esecuzione o presentino specifici rischi”, •    l’indicazione dei rischi connessi all’atto medico da compiere, •    le conseguenze prevedibili di quest’ultimo, •    la prospettazione delle eventuali alternative diagnostiche o terapeutiche, se ve ne sono, con la descrizione delle loro modalità di esecuzione e l’indicazione dei rischi inerenti a ciascuna di esse, •    la prospettazione delle conseguenze della mancata effettuazione dell’atto medico proposto; •    l’eventuale situazione di carenza delle attrezzature e dotazioni ospedaliere, anche momentanea, che sia potenzialmente suscettibile di incidere in qualsiasi modo sull’esito dell’atto da compiere; •    l’esposizione di ogni altro fatto o valutazione utile alla decisione che il paziente deve assumere. Mi sembra importante sottolineare come il contenuto dell’informazione diretta al paziente debba tener presente che quest’ultima non ha un carattere meramente illustrativo perchè non ha finalità didattiche o burocratiche, ma è invece finalizzata a consentire una decisione consapevole. Decidere significa anche scegliere fra più opzioni possibili (nel nostro caso sempre quanto meno due: sottoporsi all’atto medico proposto oppure no) e, quindi, una scelta consapevole presuppone non solo la percezione delle informazioni relative all’accertamento o trattamento proposto, ma pure di quelle inerenti ai possibili accertamenti o trattamenti alternativi ed alle prospettive connesse al rifiuto di qualsiasi accertamento o trattamento. Questo aspetto dell’informazione viene normalmente sottovalutato, perchè si tende ad “informare” solo in merito all’atto medico che viene proposto, senza tener presente che il paziente deve esser reso consapevole dell’intero orizzonte delle opzioni che ha di fronte, comprese quelle che, a parere del medico, non sono elettive, con l’ovvia precisazione che compete a chi informa l’onere di spiegare perchè non lo sono. Detto questo il nostro problema potrebbe sembrare risolto, ma così non è. Infatti, è intuitivo che fra medico e paziente esiste un enorme squilibrio di conoscenze scientifiche e professionali che di per sè costituisce una barriera importante fra il paziente e la piena consapevolezza delle implicazioni del suo stato di salute e della scelta che gli viene proposta: il compito di chi deve colmare questo squilibrio in molti casi non è facile. Inoltre, il professionista rischia di dare per scontate una quantità di informazioni, ritenute elementari, che per il paziente magari non lo sono. Infine, è lecito chiedersi sino a che livello di dettaglio e di approfondimento deve spingersi l’intervento informativo del medico. Esiste, quindi, un problema riguardo alla “quantità” delle informazioni o, se vogliamo, al “grado” di informazione che si può ritenere sufficiente perchè il paziente possa esprimere il suo consenso in modo realmente “consapevole”. Questo problema è particolarmente grave con riguardo all’aspetto specifico dei rischi dell’atto medico proposto. Ad ogni attività diagnostica, ad ogni intervento chirurgico e ad ogni trattamento terapeutico, infatti, è connessa una quantità di rischi, alcuni dei quali statisticamente più rilevanti e vengono, quindi, considerati “tipici” dell’atto proposto al paziente, mentre molti altri sono più o meno remoti. Quali e quanti di essi è doveroso comunicare al paziente in sede di colloquio informativo? Fino a che punto, inoltre, è necessario descrivere la natura e la probabilità dell’avveramento di tali rischi? Verrebbe spontaneo rispondere che è sufficiente indicare quelli “specifici” e ricorrenti, ma le risposte che giurisprudenza e dottrina giuridica danno su questo punto sono ben diverse. La prima, infatti, mostra di ritenere necessaria la prospettazione dei “rischi specifici”, ma subito precisa che fra questi si debbono annoverare pure quelli “ridotti”, per cui la categoria stessa dei “rischi specifici” risulta di difficile definizione, se in essa si intendono far rientrare non già solo i rischi maggiormente ricorrenti, ma pure quelli “ridotti”, ciò a tacer del fatto che il concetto di “rischio ridotto” risulta di per sè talmente ambiguo da mettere in crisi il già non certissimo confine fra rischi generici e rischi specifici. In questa prospettiva l’obbligo informativo si dilata fino a ricomprendere non sono “i rischi prevedibili”, ma anche gli “esiti anormali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plaerumque accidit”, al che verrebbe da pensare che al paziente si debba somministrare più o meno l’intera enciclopedia medica. Questa posizione, tuttavia, si espone ad una facile critica sul piano razionale. Un obbligo informativo così esteso confligge anzitutto col principio di ragionevolezza che, secondo la stessa Corte di Cassazione, costituisce uno dei “principi generali dell’ordinamento” e che costituisce un limite razionale implicito a qualsiasi valutazione, anche di ordine giuridico, dei comportamenti umani. A questo proposito basti pensare che tutti noi riteniamo accettabile utilizzare la nostra autovettura ed affrontare la circolazione stradale, essendo ben consapevoli dei rischi “tipici” di queste attività, ma ignorando totalmente quelli “anormali, al limite del fortuito” che pure sono loro propri, quali, ad esempio: •    quello di un aereo leggero che piombi dall’alto sulla nostra autovettura, investendola e facendola uscire di strada; •    quello di una piccola cella temporalesca, del fronte non maggiore di un paio di chilometri, che faccia cadere improvvisamente sulla pubblica via una grandinata così copiosa e violenta da far uscire di strada decine di autovetture; •    quello di un fulmine che abbatta un albero latistante alla carreggiata, facendolo cadere proprio sul nostro veicolo mentre vi sta transitando; •    quello di un’avaria che paralizzi il nostro veicolo proprio nel bel mezzo di un ponte autostradale, costringendoci ad uscire dall’abitacolo per segnalarne la presenza e poi a salire sul guard rail per evitare di essere investiti, così perdendo l’equilibrio e cadendo nel fiume sottostante; e di molti altri ancora, realmente avveratisi e parimenti non previsti da nessuno di noi quando quest’oggi si è messo al volante della propria automobile. Nonostante ciò, nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che siamo stati degli incoscienti ad  affrontare il tragitto che dalle nostre case ci ha portati sino a qui. Pertanto, dilatare a tal punto il dovere di informazione da estenderlo ai rischi “anormali, al limite del fortuito” equivarrebbe a ravvisare una responsabilità di colui che non ha informato il paziente di un qualsiasi rischio remoto ed improbabile, ogniqualvolta questo malauguratamente abbia ad avverarsi, creando così una sorta di responsabilità oggettiva da carenza di informazione non prevista dall’ordinamento. Inoltre, mi sembra chiaro che questa posizione giurisprudenziale non tiene in debito conto da un lato le difficoltà pratica di compilare  l’intero catalogo dei rischi connessi ad un trattamento medico, compreso quelli “anormali, al limite del fortuito”, e dall’altro, soprattutto, l’impatto psicologico ed emotivo che un’esposizione di tal genere può avere sul paziente. E passi se ci si trovi di fronte ad un paziente in buona salute e non particolarmente impressionabile, ma se davanti abbiamo un ansioso o, peggio, una persona gravemente debilitata o comprensibilmente angosciata da una diagnosi grave o infausta, riteniamo davvero che possa esser ragionevole e necessaria l’illustrazione di ogni possibile rischio, compresi quelli “anormali, al limite del fortuito”? Queste riflessioni, che vorrete concedere all’uomo ed al potenziale vostro paziente prima ancora che al giurista, inducono in me l’interrogativo se tra il mondo del diritto e quello medico non vi sia una lontananza certo non voluta da nessuno, ma talmente grande da pregiudicare seriamente il nostro modo di interpretare l’attività medica ed alcuni suoi aspetti particolarmente critici, come appunto quello dell’estensione del dovere di informazione. Tant’è che in molti lavori dottrinali si leggono affermazioni del tutto fondate e condivisibili in linea teorica, ma che mostrano limiti evidenti quando vanno a confrontarsi con la realtà concreta, come quella per cui “a mano a mano che le prospettive del trattamento si faranno meno favorevoli per il malato, si assottiglierà anche la quantità delle notizie il cui apprendimento può essere giudicato come irrilevante”. Il principio per cui il compimento di un intervento chirurgico più rischioso implichi la necessità di un’informazione più dettagliata rispetto ad un intervento routinario non può che essere condiviso, ma, nella realtà quotidiana, deve confrontarsi col fatto che gli “interventi più rischiosi” assai frequentemente debbono effettuarsi proprio sui pazienti il cui stato di salute è maggiormente compromesso e le cui diagnosi sono più preoccupanti. Come contemperare l’esigenza di una più approfondita informazione con il peso che un paziente in queste condizioni può concretamente sostenere sotto il profilo psicologico ed emotivo? E come farlo soprattutto in quei casi in cui manca materialmente il tempo necessario a che il medico “accompagni” il paziente a maturare gradualmente una consapevolezza del proprio stato e delle proprie prospettive terapeutiche e ad affrontare quindi più serenamente, per quanto possibile, la scelta che gli viene proposta? Questi interrogativi, più che legittimi per colui che deve non solo informare un paziente, ma anche curarlo e preservare la sua salute fisica e mentale, fanno fatica a trovare risposta oggi nel campo del diritto ovvero rischiano di trovare una risposta tale da suggerire comportamenti “difensivi” del tutto tranquillizzanti per il medico da un punto di vista legale, ma perfino brutali e disumani proprio nei confronti dei pazienti più deboli. Queste stesse preoccupazioni emergono, del resto, dal parere del Comitato Nazionale di Bioetica costituito presso il Consiglio dei Ministri in materia di “consenso informato”, reso ormai quindici anni orsono, laddove dopo aver dato atto che “rimangono valutazioni molto difformi circa il “grado” d’informazione da fornire al paziente almeno in certe situazioni cliniche, sostenendo taluni (non sempre a torto) che è nell’interesse stesso di gran parte dei pazienti – ad esempio, in malattie a decorso fatale – ricevere con molta cautela le informazioni del caso”, si suggerisce: •    da un lato che “le informazioni, se rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, dovranno essere fornite con circospezione”, raccomandazione che, come abbiamo visto, ha trovato puntuale riscontro nel Codice di deontologia medica, e •    dall’altro che “le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico dovranno essere veritiere e complete, ma limitate a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare, evitando esasperate precisazioni di dati (percentuali esatte – oltretutto difficilmente definibili – di complicanze, di mortalità, di insuccessi funzionali) che interessano gli aspetti scientifici del trattamento”. Che questi aspetti critici del problema non riguardino casi marginali è testimoniato, ad esempio, dal fatto che in una causa civile attualmente in istruttoria si discute proprio se un chirurgo abbia adempiuto ai propri doveri informativi, avendo comunicato al paziente l’esistenza di una possibile complicanza, o se egli fosse tenuto a precisargli anche la percentuale statistica (particolarmente rilevante) di quella determinata complicanza, poi effettivamente verificatasi. Ed ancora, non si pensi che gli “esiti anormali, al limite del fortuito” di un intervento o di un trattamento siano, poi, così rari, come dimostra la prassi forense, spesso interessata da rischi tutt’altro che “specifici” o ricorrenti, ma comunque avveratisi per motivi che sfuggono alle nostre capacità di comprensione. Le preoccupazioni che ho cercato di esprimere riguardo al “grado” dell’informazione ed alla “quantità” delle informazioni da somministrare al paziente sollecitano, quindi, anzitutto un maggior dialogo fra medici, giuristi ed altre figure professionali interessate da questa problematica, non solo per un indispensabile scambio di conoscenze e di esperienze, ma soprattutto per superare assieme gli evidenti limiti di un approccio burocratico o paternalistico da parte medica ed esclusivamente teorico da parte degli operatori del diritto. Solo così, a mio avviso, potremo dare risposte condivise, tali da essere •    efficaci ai fini della tutela di diritti del paziente (non solo quelli di libertà, ma anche quelli di dignità personale e di tutela della salute), •    chiare e precise per i medici e tutti gli operatori della sanità.La prova del “consenso  informato”Se il rilievo deontologico e le implicazioni legali del dovere di informazione impongono che questo venga adempiuto effettivamente e non mediante “scorciatoie” burocratiche, come mi sono sforzato di sottolineare nel corso di questo intervento, ciò non significa che la necessità di precostituirsi una prova dell’informazione somministrata e del suo contenuto, nonchè del consenso ricevuto dal paziente, debba essere considerata un’esigenza di secondaria importanza, specialmente per una struttura sanitaria complessa come un’Azienda U.L.S.S. e per coloro che vi operano. Ho già illustrato, infatti, come, seppure in un panorama giurisprudenziale per molti versi ancora incerto ed in fieri, tale esigenza rivesta un notevolissimo interesse pratico. La necessità di precostituirsi una prova deriva anche dalle evidenti difficoltà che incontrerebbe il tentativo di introdurre in un giudizio civile una prova testimoniale su questo specifico oggetto. Quest’ultima, infatti, dovrebbe necessariamente essere resa dal medico che ha effettuato il colloquio informativo, del quale potrebbe essere eccepita l’incapacità a deporre, in quanto interessato in causa. Se si trattasse della stessa persona che ha successivamente eseguito l’atto medico contestato, la sua incapacità a deporre sarebbe evidente. Non così, a mio avviso, sarebbe se si trattasse di un medico diverso (come sovente avviene in caso di interventi chirurgici), ma anche in questa ipotesi la capacità a deporre del teste, in alcune cause non ancora pervenute a sentenza, è stata contestata dalla Controparte processuale e sul punto non esiste ancora giurisprudenza edita. Anche per questo motivo, ma non solo per questo, si ricorre normalmente al “modulo” da far sottoscrivere al paziente. Va subito detto che questa prassi non deve essere demonizzata, ma solo gestita in modo appropriato. Il “modulo” sottoscritto dal paziente, infatti, sotto il profilo giuridico, di per sè, rappresenta una “dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte”, in quanto resa dal paziente che potrebbe promuovere un giudizio civile di responsabilità nei confronti della struttura sanitaria che in questo giudizio potrebbe essere convenuta, e pertanto, a norma degli art. 2730 e 2735 cod. civ., deve essere qualificato come “confessione stragiudiziale”. Secondo quanto previsto dall’art. 2733, secondo comma cod. civ. la confessione “fa piena prova contro colui che l’ha fatta”, costituisce cioè “prova legale” dei fatti che ne sono oggetto  e, come tale, non ammette prova contraria, nè testimoniale, nè di altro genere. La confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta, poi, ha lo stesso valore di quella giudiziale e anch’essa, esclude pertanto la possibilità di provare il contrario: “La confessione stragiudiziale fatta alla parte, una volta provata (con qualsiasi mezzo, ivi compresa la confessione, valendo in tal caso le ordinarie regole probatorie), ha il medesimo valore di prova legale della confessione giudiziale, ed è dotata di efficacia vincolante sia nei confronti della parte che l'ha resa (alla quale non è riconosciuta alcuna facoltà di prova contraria), sia nei confronti del giudice, che, a sua volta, non può valutare liberamente la prova, nè accertare diversamente il fatto confessato” (Cassazione civile , sez. III, 10 agosto 2000, n. 10581). Il valore di prova legale della dichiarazione confessoria, tuttavia, è strettamente limitato ai fatti che sono oggetto della dichiarazione stessa. Ai fini che qui interessano, pertanto, è indispensabile tener presente che il valore probatorio di dichiarazioni generiche e valutative (del tipo “il sottoscritto dichiara di essere stato esaurientemente informato di ogni rischio connesso all’intervento chirurgico cui dev’essere sottoposto”) può essere seriamente contestato (e difatti viene sovente negato dalla giurisprudenza di merito, come si è visto), anche perchè tali dichiarazioni si sostanziano in un giudizio sulla completezza dell’informazione offertagli che il paziente non è certo qualificato ad esprimere, non possedendo la competenza  professionale necessaria per valutare se questa sia stata o meno “esaustiva”. E’, poi, fondamentale ripetere, anche a questo proposito, che il “modulo” a stampa non è sostitutivo del colloquio informativo, ma dovrebbe in realtà rappresentare la sintesi di quest’ultimo. La modulistica che la struttura sanitaria dovrebbe mettere a disposizione degli operatori pertanto: •    dovrebbe essere quanto mai articolata e dettagliata (per reparto e per tipo di intervento), al fine di fare il riferimento più specifico possibile alle diverse tipologie di atti medici praticati nella struttura, evitando generalizzazioni e stereotipi, •    dovrebbe essere strutturata come una traccia da completare con tutti i riferimenti necessari al caso concreto, nel corso o al termine del colloquio informativo, e non come un modulo totalmente precompilato, da far semplicemente sottoscrivere dal paziente. In tal modo il “modulo” può divenire una sintesi sufficientemente fedele del contenuto dell’informazione comunicata al paziente e la sua sottoscrizione da parte di quest’ultimo può divenire non solo la prova del consenso prestato all’esecuzione dell’atto medico, ma anche una valida dichiarazione confessoria dell’informazione ricevuta, risolvendo il problema della prova di quest’ultima in un eventuale giudizio (e probabilmente contribuendo a deflazionare il contenzioso in materia). Tuttavia, ancora una volta la prassi forense dimostra come anche un “modulo” ben strutturato e completato da opportuni riferimenti al caso concreto non sempre riesca a superare la prova di un giudizio civile. Come ha osservato un recente contributo dottrinale, infatti, si può sostenere che “il supporto cartaceo non appaga l’esigenza di immortalare ogni particolare riferito dal medico al paziente”, e magari proprio quel particolare che maggiormente interessa conoscere nella controversia specifica, per cui l’unico rimedio a questa situazione viene indicato nelle “moderne tecnologie” e, in particolare, nella “registrazione audiovisiva delle informazioni scambiate” fra medico e paziente, l’unica a poter dare una prova fedele ed esauriente del reale contenuto del colloquio informativo. Com’è noto, le tecnologie digitali di videoregistrazione sono oggi in grado di garantire un supporto tecnico quasi ottimale, possiedono un’apprezzabile semplicità d’uso e dei costi relativamente contenuti, tant’è che il loro uso è stato ampiamente sperimentato in questo campo negli Stati Uniti ed in altri paesi. Certamente una telecamera, per quanto piccola, costituirebbe un “terzo incomodo” suscettibile di alterare i termini emotivi di un colloquio informativo a volte molto delicato e di interferire con l’empatia che, in tali circostanze, sarebbe auspicabile si formasse tra medico e paziente, ma l’utilizzo di questo strumento permetterebbe di risolvere una quantità di problemi in materia di prova, eviterebbe la tentazione di delegare totalmente al modulo prestampato il processo informativo e rappresenterebbe un indubbio deterrente nei confronti di ogni possibile abuso del ricorso al “consenso informato” per giustificare richieste di risarcimento altrimenti infondate. In proposito sarebbe opportuno che le Aziende U.L.S.S. avviassero una seria riflessione.Alcuni aspetti praticiVi sono, infine, alcuni aspetti pratici, attinenti alle modalità di somministrazione dell’informazione ed alla sua prova, che mi paiono meritevoli di una segnalazione. Il primo riguarda il fatto che, in molti casi, il paziente perviene al medico che deve porre in essere l’atto medico, per lo più un intervento chirurgico o un trattamento terapeutico, perchè inviatogli da altri medici (colleghi di un diverso reparto ospedaliero, medici di base, medici specialisti). E’ bene chiarire che in questo caso, per costante giurisprudenza, il dovere informativo grava sempre ed esclusivamente sul medico che deve eseguire l’intervento o il trattamento proposto al paziente e non su chi gli ha inviato il paziente. La seconda riguarda il numero sempre crescente di prestazioni sanitarie, fra le quali molti atti medici abbisognevoli di “consenso informato”, che le strutture sanitarie pubbliche erogano in favore di stranieri, in molti casi extracomunitari, delle più diverse nazionalità. Alcuni di questi pazienti non conoscono la nostra lingua o ne hanno una conoscenza assai approssimativa, tale da non consentire la comunicazione di concetti che non siano semplici e banali e la comprensione di una terminologia medica anche elementare, per cui nei loro confronti si pone il problema di superare barriere linguistiche a volte particolarmente impervie. E’ evidente, specie nei casi di maggior gravità, la necessità di affidarsi ad un interprete affidabile ai fini del colloquio informativo o quanto meno di predisporre una modulistica opportunamente tradotta in varie lingue, in modo che, laddove non sia veramente possibile la traduzione di un colloquio, ci si possa almeno affidare alla lettura di un documento il più esauriente possibile.ConclusioniSpero di esser riuscito quanto meno a far comprendere che il tema del “consenso informato” è molto più complesso ed impone alle strutture sanitarie ed ai medici un impegno probabilmente più esigente di quel che parrebbe a prima vista. Esso rappresenta uno dei punti cruciali del cambiamento del rapporto fra medico e paziente che attraversa la nostra epoca, del resto non diversamente da tanti altri rapporti professionali, un tempo dati per codificati ed immutabili ed oggi rimessi in discussione dai mutamenti culturali in atto e sotto la spinta degli interessi più diversi, alcuni fra i quali assai apprezzabili sotto il profilo etico e sociale, ma tali da porci di fronte a problemi fino a ieri sconosciuti e di non facile soluzione. Nè il mondo medico, nè quello del diritto paiono aver raggiunto un punto di approdo sufficientemente stabile ed auspicabilmente condiviso nella materia di cui stiamo discutendo: come ho già detto, il confronto fra di essi è fondamentale per pervenire a questo risultato. Un contributo determinante in questa direzione può provenire dalle strutture sanitarie pubbliche, per il loro ruolo istituzionale e per l’importanza delle funzioni che esercitano. Si tratta, infatti, di prendere atto che i doveri di informazione del paziente e le conseguenti attività informative non rappresentano un accessorio facoltativo della medicina organizzata, ma ne costituiscono a tutti gli effetti una componente propria, sia sotto il profilo etico che sotto quello giuridico, e che conseguentemente tali attività per una struttura sanitaria pubblica costituiscono un compito istituzionale da soddisfare, come tutti gli altri (invero sempre più numerosi e complessi) cui essa deve attendere. Queste considerazioni debbono necessariamente riflettersi sulle strategie organizzative e sulla gestione delle risorse degli enti, perchè implicano la necessità di dare risposte organizzate, sistematiche e verificabili. In proposito basti pensare alla necessità di prevedere una sufficiente disponibilità di tempo da parte del personale medico per i colloqui informativi, quella di dotarsi di locali idonei al loro svolgimento e di strumenti adeguati per documentarli (modulistica o videoregistrazione), per non parlare della formazione specifica (anche psicologica) dello stesso personale medico, quale raccomandata dallo stesso Comitato Nazionale di Bioetica nel parere che ho dianzi citato: “Il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio comportamento nel fornire le informazioni”. Tutto ciò implica che l’attività informativa dovrebbe divenire a pieno titolo un “costo aziendale”, coerentemente peraltro con quanto osservato dalla più recente dottrina giuridica, secondo la quale il sistema della responsabilità civile è in realtà finalizzato ad allocare il costo degli “incidenti” (e tale è indubbiamente anche un danno provocato da un difetto di informazione o da un atto medico non autorizzato). Secondo questa impostazione, infatti, “la decisione sull’allocazione del danno ha, in realtà, un evidente aspetto preventivo. Anzi le regole della responsabilità civile sono state viste come strumenti di prevenzione generale degli incidenti, che tendono a mantenere un livello ottimale di investimenti in sicurezza. L’imposizione del fardello risarcitorio su un danneggiante potenziale cerca, infatti, di far sì che costui trovi più economico adottare misure che gli evitino di essere chiamato a risarcire le vittime potenziali delle sue attività”. Anche a questo proposito sarebbe il caso di fare qualche riflessione, a fronte del continuo dilatarsi del contenzioso giudiziario che coinvolge la responsabilità delle strutture sanitarie pubbliche.

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