Gli oneri dell’assistenza pubblica ai malati cronici

Gli oneri dell’assistenza pubblica ai malati cronici
27 Aprile 2013: Gli oneri dell’assistenza pubblica ai malati cronici 27 Aprile 2013

di Giampaolo Miotto Il tema della mia relazione, vale a dire quello degli oneri dell’assistenza pubblica prestata ai malati cronici, interessa un gran numero di persone affette da una quantità di patologie diverse e coinvolge soprattutto gli anziani, affetti per lo più da varie forme di demenza senile, ma anche molte persone che anziane non sono, come quelle che (ambiguamente sotto il profilo giuridico) vengono definite disabili psichici. Il “rapporto Alzheimer 2010” stimava in circa un milione gli italiani affetti da demenza senile, di cui circa settecentomila malati di Alzheimer. Per comprendere quale sia l’entità della vera e propria emergenza sanitaria di fronte alla quale ci troviamo a questo proposito è sufficiente ricordare che, secondo quel rapporto, nel 2010 le persone che nel mondo soffrivano di demenza senile erano 35 milioni, mentre si prevede che nel 2030 saranno 67 milioni e, nel 2050, ben 115 milioni (e cioè che in quarant’anni saranno più che triplicate di numero). Credo che questi dati possano dare la dimensione sociale del problema e far percepire la sua importanza “politica” soprattutto in prospettiva, anche in termini di ricadute attuali e future sulla spesa pubblica del nostro Paese.Alla luce di questi dati di fatto credo sia possibile comprendere l’importanza “storica” della sentenza della Prima Sezione della Cassazione Civile n. 4558 pubblicata il 22 marzo 2012, di cui poi vi parlerò, che per la prima volta ha affermato il principio giuridico per cui gli oneri di mantenimento di un anziano malato di Alzheimer non possono essere fatti gravare, nemmeno in parte, su di esso o sui suoi parenti obbligati agli alimenti. Infatti, è un dato di comune esperienza quello per cui moltissime persone che si trovano in queste condizioni sono oggi assistite in Istituti di ricovero di varia natura e che i relativi oneri vengano parzialmente riversati sugli assistiti o sui loro congiunti obbligati agli alimenti, vuoi direttamente da tali Istituti, vuoi dai Comuni di residenza. Il problema di cui oggi mi occuperò nasce dal fatto che tutte queste persone sono dei malati. Ad esse vengono prestate cure mediche di vario genere, riguardanti direttamente la patologia principale da cui soffrono ovvero la inevitabile sequela di ulteriori affezioni che purtroppo progressivamente si amplificano a causa del loro stato generale. In questa materia, pertanto, vengono in luce tanto il diritto all’assistenza pubblica che l’art. 38 della Costituzione garantisce al cittadino “sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, quanto il “diritto alla salute” tutelato dall’art. 32, dando luogo ad un intreccio che ha causato non pochi equivoci interpretativi e gravi problemi pratici. Alla base di queste difficoltà vi è anche il fatto che quello dell’assistenza sanitaria e quello dell’assistenza sociale sono due settori ben distinti della pubblica amministrazione, il cui agire  risponde a principi giuridici assai diversi, come la giurisprudenza delle Corti Superiori ha ripetutamente affermato. Da un punto di vista giuridico la “cartina di tornasole” delle problematiche sollevate dall’intreccio di questi due “modi” diversi è rappresentata da un fatto molto banale, se vogliamo, ma di per sé eloquente. Nel linguaggio comune infatti ci riferiamo alle persone di cui oggi ci occupiamo con un’espressione tipica del lessico socio-assistenziale, chiamandoli “anziani non autosufficienti”,  anziché con quella propria del lessico medico, secondo il quale dovrebbero essere definite come “malati cronici”. Questa scelta linguistica è indubbiamente rivelatrice del fatto che le importanti esigenze assistenziali di queste persone ci portano, quasi inconsapevolmente, a far passare in secondo piano il fatto che, in realtà, si tratta prima di tutto di malati, dei quali occorre anzitutto tutelare il diritto alla salute. Nella prassi amministrativa questo approccio si è a tal punto sedimentato da far ritenere del tutto naturale che l’anziano non autosufficiente che venga assistito in regime di ricovero abbia diritto alla gratuità delle sole prestazioni di natura strettamente sanitaria e debba, invece, pagare per le altre che, con un eufemismo un po’ beffardo, vengono definite come “alberghiere”. E ciò sulla base di una legislazione regionale che, anche nella nostra regione, distingue tra quota sanitaria” e “quota assistenziale” delle rette di mantenimento. In proposito dovrebbe indurci a riflettere, sotto il profilo giuridico dell’analisi della fattispecie concreta, la sola constatazione per cui non vengono invece assoggettati a questo stesso trattamento tutti gli altri malati che si ricoverano in un Presidio ospedaliero per un intervento chirurgico o per un qualsiasi altro trattamento terapeutico, pur godendo anch’essi di analoghe prestazioni “alberghiere” (vitto, alloggio, cura della persona…). Infatti, la circostanza per cui questi ultimi (almeno normalmente) sono malati “acuti”, mentre gli altri sono malati “cronici” non modifica il fatto che tutti sono malati e come tali tutti dovrebbero essere assistiti gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale. Pertanto, si tratta di stabilire se il fatto che un malato sia cronico, e non acuto, sia di per sé sufficiente a giustificare che una parte delle spese sostenute dalla pubblica amministrazione per assisterlo siano poste a carico suo o dei suoi familiari. A questo proposito è bene premettere che le questioni relative all’assistenza dei malati cronici anziani furono affrontate già a partire dagli anni cinquanta, quando, ad esempio, l’assistenza sanitaria ai pensionati statali ed ai conviventi a carico, compresa quella ospedaliera, fu garantita dalla legge n. 692/1955, si badi, “senza limiti di durata nei casi di malattie specifiche della vecchiaia”. La legge n. 132/1968 (cd. “legge Mariotti”) che disciplinò gli enti ospedalieri, mise mano in modo organico alla questione (ovviamente con i criteri dei tempi, incentrati sulla ospedalizzazione), prevedendo che ogni Ospedale generale provinciale si dotasse di appositi reparti di ricovero di geriatria e per lungodegenti (art. 22) ed istituendo appositi Ospedali per lungodegenti e convalescenti (art. 25). Alla luce di queste premesse era del tutto logico che la riforma sanitaria attuata con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 assumesse come sua fondamentale finalità •    la costituzione di un Servizio sanitario nazionale destinato ad assicurare “la promozione, il mantenimento ed il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali”  e quindi principalmente •    “la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata” , •    ponendo l’accento, fra l’altro, sulla “tutela della salute degli anziani” . Pareva quindi che, per effetto della riforma sanitaria, la tutela del malato cronico, ancorchè anziano, fosse stata definitivamente acquisita dal nostro ordinamento anche in termini di gratuità delle prestazioni di cura ed assistenza da prestarsi in regime di ricovero. Tale esito, per la verità, parve definitivamente confermato dal disposto dell’articolo 30 della legge n. 730/1983, per il quale sono “a carico del Servizio Sanitario Nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”. Tuttavia, la rapida crescita della domanda di questo genere di prestazioni, dovuta anche al progressivo incremento della durata media della vita e ad ai cambiamenti sociali in atto, non tardò a porre problemi di “sostenibilità finanziaria” di questo genere di interventi da parte delle neo-costituite Unità Sanitarie Locali ed anche di sovraffollamento dei reparti ospedalieri di lungodegenza. Questa situazione generò pure un rimarchevole contenzioso fra U.S.L. (competenti in materia di attività sanitarie), Comuni (titolari, invece, delle competenze in materia di assistenza sociale), ed IPAB o Istituti di ricovero similari che, di fatto, provvedevano ad erogare la gran parte di queste prestazioni. Nel tentativo di risolvere quello che, in sostanza, era divenuto un problema di finanza pubblica e con l’intento di disciplinare la materia intervenne allora il d.P.C.M. 8 agosto 1985 (assunto quale “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome in materia di attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”, ai sensi di quanto specificamente previsto dall’art. 5 della legge n. 833/1978). L’”atto di indirizzo” in questione, •    all’art. 1 chiarisce che dovono reputarsi “attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali di cui all'art. 30 della legge 27 dicembre 1983, n. 730”, e perciò totalmente a carico del Servizio sanitario, quelle che “richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purchè siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell'attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l'attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti”, •    precisando poi all’articolo 2 che da tale ambito devono ritenersi escluse invece “le attività direttamente ed esclusivamente socio-assistenziali”, i cui oneri pertanto sono destinati a rimanere a carico degli altri enti a ciò deputati, massime i Comuni (ed eventualmente dell’’utenza, qualora si tratti di “servizi a domanda individuale”). A maggior chiarimento, poi, l’art. 6 precisa che “rientrano tra le attività socio-assistenziali di rilievo sanitario, con imputazione dei relativi oneri sul Fondo sanitario nazionale, i ricoveri in strutture protette, comunque denominate, sempre che le stesse svolgano le attività di cui all'art. 1”. Esemplificando, la norma includeva fra queste tanto le attività finalizate “alla cura e al recupero fisico-psichico dei malati mentali”, quanto quelle destinate “alla cura degli anziani, limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio”. Ma, in cauda venenum, l’ultimo comma del medesimo articolo 6 ulteriormente specificava che: “Nei casi in cui non sia possibile, motivatamente, disgiungere l'intervento sanitario da quello socio-assistenziale, le regioni possono, nell'ambito delle disponibilità finanziarie assicurate dal Fondo sanitario nazionale, avvalersi mediante convenzione di istituzioni pubbliche o, in assenza, di istituzioni private. In questi casi le regioni possono prevedere che l'onere sia forfettariamente posto a carico, in misura percentuale, del Fondo sanitario nazionale o degli enti tenuti all'assistenza sociale in proporzione all'incidenza rispettivamente della tutela sanitaria e della tutela assistenziale, con eventuale partecipazione da parte dei cittadini”. Tale precisazione, seppur in modo a dir poco ambiguo e palesemente contraddittorio con i principi generali  precedentemente enunciati del medesimo atto di indirizzo, apriva la porta ad una distinzione fra oneri sanitari ed oneri assistenziali ed alla facoltà delle Regioni di porre a carico dell’utenza questi ultimi. Più o meno tutte le Regioni italiane, infatti, usufruirono di tale “facoltà”, promulgando una legislazione che, distinguendo fra “quote di spesa di rilievo sanitario” destinate ad essere sovvenute dal “fondo sanitario regionale” e “quote di spesa socio-assistenziale” a carico dell’utente o dei suoi congiunti obbligati agli alimenti, di fatto sancivano la completa gratuità delle prestazioni solo per gli anziani malati cronici indigenti e privi di congiunti economicamente capaci. Anche la Regione Veneto intervenne in proposito dapprima con l’art. 3, comma settimo della legge regionale 15 dicembre 1982, n. 55, e poi con varie altre norme succedutesi nel tempo. Questa è la situazione che, come ripeto, si è perpetuata sino ad oggi e che è destinata, in avvenire, a coinvolgere un numero crescente di famiglie, che saranno chiamate a sostenere un oneroso fardello economico per l’assistenza prestata ad un loro congiunto malato cronico che venga assistito in regime di ricovero. Mi auguro che queste premesse siano servite a comprendere la dimensione e l’importanza del fenomeno nel quale si situa la decisione della Cassazione Civile n. 4558/2012, che è stata tuttavia il frutto di un lungo percorso giurisprudenziale, iniziato, come ho prima accennato, col fiorire di un non trascurabile contenzioso fra Comuni, USL, IPAB e Istituti di assistenza di vario genere. Questo contenzioso fra enti pubblici (e non fra utenti o loro familiari ed enti pubblici) era insorto originariamente soprattutto per effetto della “legge Basaglia”, pressoché coeva alla riforma sanitaria (legge 13 maggio 1978, n. 180), che aveva avviato il processo di de-istituzionalizzazione dei malati psichici, dando luogo a non pochi dubbi in merito all’ente cui incombeva l’obbligo di sopperire agli oneri di assistenza di questa categoria di pazienti, anch’essi “malati cronici”. La giurisprudenza formatasi a questo proposito è stata, tuttavia, molto importante ai fini di identificare con precisione le “attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali” il cui onere, secondo l’art. 30 della legge n. 730/1983, deve gravare per intero sul Servizio sanitario nazionale (con conseguente gratuità delle prestazioni per il paziente). In proposito si pronunciò dapprima la Cassazione Civile , con tre successive sentenze (due delle quali riguardanti controversie promosse dall’Istituto Costante Gris di Mogliano Veneto). Il percorso interpretativo seguito dalla Corte nella prima di tali decisioni (n. 10150/1996) partiva dalla constatazione che il d.P.C.M. 8 agosto 195, in realtà, non aveva “valore normativo”, assolvendo ad una mera “funzione (amministrativa) di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali”, ragion per cui era invece proprio l’art. 30 della legge n. 730/1983 cui doveva farsi riferimento per stabilire quale fosse la nozione di “attività di rilievo sanitario connessa con quella socio assistenziale che, ai sensi dell’art. 51 della legge n. 833/1978, è a carico direttamente del servizio sanitario nazionale”. A tal fine segnalava la Corte che “le prestazioni sanitarie, al pari di quelle di rilievo sanitario sono oggetto di un diritto soggettivo, a differenza di quelle socio-assistenziali alle quali l’utente ha solo un interesse legittimo”, sicchè, con riguardo ai “malati mentali cronici”, “si deve solo accertare se in loro favore, oltre alle prestazioni socio-assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, ovvero sia stata prestata soltanto un’attività di sorveglianza e di assistenza non sanitaria. Solo in questo secondo caso (l’attività prestata) si potrà considerare di natura socio-assistenziale, e pertanto estranea al servizio sanitario, mentre nel primo si tratterà di prestazioni di rilievo sanitario di competenza del servizio sanitario nazionale”. In altre parole: quando all’utente vengono erogate prestazioni di natura sanitaria, quelle socio-assistenziali che ad esse si accompagnino debbono considerarsi “di rilievo sanitario” e per ciò stesso esse pure a carico del Servizio sanitario (e dunque delle U.S.L.), a norma dell’art. 30 della legge n. 730/1983. Solo quando le prestazioni rese all’utente non comprendano alcun genere di trattamento sanitario, si tratterà invece di prestazioni socio-assistenziali, di competenza dei Comuni, per le quale a questi potrà competere diritto di rivalsa nei riguardi dell’utente o degli obbligati agli alimenti. Si badi che, nel caso esaminato dalla Corte in quella prima sentenza, fu sufficiente il fatto che al malato cronico venisse praticata, sotto controllo medico, una “somministrazione continua di farmaci diretti a controllare le crisi di aggressività” per qualificare le attività socio-assistenziali a questa connesse come “di rilievo sanitario”, con conseguente competenza della U.S.L. in merito alla relativa spesa. Allo stesso risultato pervenne Cass. Civ. n. 8436/1998 in un caso in cui era stato accertato che “le prestazioni fornite al paziente non erano limitate alla semplice assistenza”, consistendo anche in “cure specifiche della malattia mentale della quale era affetto”. Al medesimo indirizzo si uniformarono ben presto anche i Giudici amministrativi: “Ai sensi degli art. 1, 51 e 75 l. 23 dicembre 1978 n. 833, art. 30 l. 27 dicembre 1983 n. 730 e art. 1 e 6 d.P.CM. 8 agosto 1985, nel caso in cui per i malati di mente cronici oltre alle prestazioni socio assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del S.s.n.” (Consiglio Stato, sez. V, 29/11/2004, n. 7766, Com. Tremestieri Etneo c. Asl CR/23, in Ragiusan 2005, 249-250, 265 ). A questo proposito è degno di nota il fatto che il T.A.R. Veneto si sia ripetutamente pronunciato sull’argomento, anche con riferimento alle leggi regionali venete succedutesi nel tempo, sempre conformandosi a questo orientamento. Fra le non poche sentenze da esso pronunciate in materia, meritano di essere citate •    la n. 1274 del 4 aprile 2005, per il rilievo secondo il quale “della distinzione tra malattia acuta e malattia cronica non c’è traccia” nell’art. 30 della legge n. 730/1983, poiché questo prende “in considerazione esclusivamente l’attività di cura (indipendentemente dalla natura acuta o cronica della patologia)”, ragion per cui il fatto che l’utente sia portatore di una patologia cronica, e non acuta, non è motivo per escludere che le prestazioni erogategli siano a carico del Servizio sanitario, •    la n. 510 del 17 gennaio 2003 (ancora una volta pronunciata in una causa promossa dall’Istituto Costante Gris, questa volta contro la Regione Veneto), per l’assunto secondo il quale “non pare accettabile il criterio discretivo individuato dall’opponente, secondo cui nell’ipotesi in cui la malattia sia di carattere psichico e non sia suscettibile di guarigione né di regressione significativa, l’assistenza che l’istituto fornisce all’ospite non può essere qualificata come avente carattere sanitario, in quanto non diretta al recupero psico-fisico della persona malata di mente e alla guarigione dell’infermità”, perché “le prestazioni e le terapie che mirano a conservare le capacità residue di un paziente o impedire il peggioramento del suo quadro clinico, proprio perché dirette al “contenimento degli esiti degenerativi” che si verificherebbero in mancanza dei predetti interventi, non possono che rientrare nelle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”: in altre parole, il fatto che le prestazioni sanitarie erogate siano dirette solamente a contenere i sintomi della malattia e non a procurare una guarigione in realtà impossibile non esclude che il loro onere debba far carico al Servizio sanitario. Si può dunque concludere che in giurisprudenza si è da tempo consolidato un orientamento per il quale, quanto al riparto delle competenze fra enti pubblici e all’onere delle relative spese, debbono considerarsi “di rilievo sanitario” e, dunque, di esclusiva competenza del Servizio sanitario nazionale pure le attività socio-assistenziali connesse a quelle strettamente sanitarie erogate ai malati cronici, anche se erogate in regime di ricovero. Ben altra sorte, almeno inizialmente, ottennero invece i primi tentativi dei parenti di questo genere di pazienti (per lo più anziani malati cronici) di resistere alle pretese formulate nei loro confronti dai Comuni a titolo di rivalsa per la spesa sostenuta relativamente alla “quota di rilievo socio-assistenziale” delle rette di mantenimento da essi corrisposte alle IPAB o ad altri Istituti di ricovero. Queste pretese traevano e tuttora traggono origine dalla legislazione regionale che ho citato e dal fatto che le Regioni corrispondono a tali istituti solo la “quota” che ritengono di pertinenza del fondo sanitario regionale, forfettariamente determinata quale corrispettivo delle prestazioni sanitarie erogate ai pazienti in questione, per cui alla restante “quota” debbono provvedere i Comuni di resistenza dell’assistito nel caso questi sia indigente o non possieda comunque sufficienti capacità economiche. Di qui la pretesa dei Comuni di rivalersi sui parenti obbligati agli alimenti, normalmente azionata facendo ricorso ad un duplice fondamento normativo, rappresentato •    da un lato, sotto il profilo pubblicistico, dall’articolo 1, comma terzo della legge 3 dicembre 1931, n. 1580, che attribuiva anche ai Comuni l’azione di rivalsa per le “spese di spedalità o manicomiali” nei confronti dei “congiunti” dell’assistito “che erano per legge tenuti agli alimenti”, •    dall’altro, sul versante civilistico, dall’azione prevista dall’art. 438 c.c. nei confronti degli obbligati agli alimenti, che i Comuni esercitavano sul presupposto di potersi surrogare nel diritto dell’alimentando. Al riguardo va subito precisato che si tratta, in entrambi i casi, di azioni che oggi non sono più proponibili per effetto di due recenti disposizioni legislative: •    l’articolo articolo 24 del D.L. 25 giugno 2008, n.112 (cd. “decreto taglia-leggi”) ha abrogato la legge n. 1580/1931, con decorrenza dal 26 dicembre 2008, •    l’articolo 2, comma sesto del decreto legislativo 20 maggio 2000, n. 130 che, modificando la previgente disciplina in materia di prestazioni assistenziali, ha stabilito che “le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell'art. 433 del codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell'attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all'art. 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata”, dettando così una norma chiaramente ostativa all’ipotizzata surrogazione degli enti erogatori di prestazioni assistenziali nei diritti dell’assistito nei confronti degli obbligati agli alimenti. Se questo è oggi il diritto vigente, vent’anni fa la situazione era ben diversa, perché ancora si discuteva, in dottrina ed in giurisprudenza, se l’art. 1 della legge n. 1580/1931 fosse stato o meno abrogato dalla riforma sanitaria e se la predetta surroga nei diritti dell’alimentando fosse o meno possibile. trattandosi di un diritto di natura strettamente personale. Sicchè questo genere di iniziative non mancò di trovare alcuni riscontri positivi in sede giudiziaria. Al riguardo si possono citare, ad esempio: •    Tribunale di Venezia 21 luglio 1992 , che ritenne validamente contratta e, dunque, giudizialmente azionabile l’obbligazione che il familiare di un malato cronico non autosufficiente si era assunto nei confronti di un Istituto di ricovero, mediante apposita convenzione, sul presupposto che la legge di riforma sanitaria avesse introdotto principi normativi “meramente programmatici” e, dunque, tali da non precludere all’ente la facoltà di “negoziare le proprie prestazioni iure privatorum”; •    Tribunale di Torino 12 agosto 1994  che, pur negando che il Comune disponesse di un’azione di rivalsa in proposito, riconobbe sussistente una sua ”azione di regresso” nei riguardi dei parenti obbligati agli alimenti, in qualità di “terzo che abbia provveduto all’adempimento dell’obbligazione alimentare” (quindi per effetto di una sorta di negotiorum gestio),  affermando anch’esso la validità di un contratto con il quale costoro si erano obbligati “a pagare la retta di ricovero” (negozio che il Tribunale qualificava come “espromissione”). Anche il Tribunale di Treviso, con la sentenza 1 luglio 1997 , si pronunciò per la perdurante vigenza dell’art. 1 della legge n. 1580/1931 e, dunque, per la fondatezza dell’azione di rivalsa promossa da un Comune anche sulla base di un atto unilaterale d’obbligo sottoscritto dai familiari dell’assistito, di cui ritenne la validità: si tratta del caso poi deciso, in sede di legittimità, dalla Cassazione con la sentenza n. 4558/2012. Questo orientamento parve, ma forse fu solo un equivoco, trovare una sponda anche nella sentenza della Corte di Cassazione n. 481 del 20 gennaio 1998, che confermò la decisione della Corte d’appello di Torino di accoglimento della domanda di rivalsa proposta dal Comune di Torino nei riguardi dei congiunti obbligati agli alimenti per le rette di mantenimento di un anziano presso un Istituto di ricovero. E’ ben vero che tale decisione affermò il perdurante vigore dell’azione di rivalsa prevista dal citato art. 1 della legge n. 1580/1931, ma non va dimenticato che, nel caso scrutinato dalla Corte in quell’occasione, le parti interessate non fecero alcuna questione in merito all’eventuale erogazione di prestazioni sanitarie in favore dell’assistito, sicchè l’oggetto della controversia apparve riguardare piuttosto “un servizio socio assistenziale reso a domanda” individuale, come la Corte stessa evidenzia in motivazione, e dunque una fattispecie diversa da quella di cui ci stiamo occupando, proprio perché non connotata da alcun genere di prestazione medica.. Qualche segno di resipiscenza iniziò a comparire nella giurisprudenza di merito solo alla fine degli anni novanta, con la sentenza del Tribunale di Verona del 14 maggio 1996 , che considerò “pacificamente abrogata” per effetto della riforma sanitaria e della “legge Basaglia” l’anzidetta disposizione del 1931 che prevedeva l’azione di rivalsa, osservando comunque trattarsi di una “richiesta... intollerabile allorchè, come nel caso di specie… si tratti di assistenza erogata ad anziani affetti da patologie croniche e quindi malati e come tali aventi diritto a prestazioni sanitarie”. La medesima decisione negava poi che il Comune potesse surrogarsi nel diritto “a richiedere gli alimenti”, trattandosi di un diritto di natura personale per il quale doveva escludersi “l’esperibilità dell’azione surrogatoria o l’applicabilità dell’art. 2041 c.c.”. Nella stessa direzione si poneva l’ordinanza del 10 novembre 2000  con la quale il Tribunale di Bassano del Grappa rimetteva alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionali delle norme regionali all’epoca vigenti  in relazione al disposto dell’art. 117 Cost., questione non esaminata poi dalla Corte, stante l’intervenuta modificazione dello stesso art. 117 Cost. per effetto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, giusta ordinanza di restituzione al giudice remittente per nuovo esame della rilevanza questione in relazione a tale novella (Corte Cost., ordinanza n. 230 del 7 giugno 2002). Sempre in questa direzione merita di essere giustamente citata anche la sentenza n. 1775 dell’11 novembre 2005, con la quale la Corte d’appello di Venezia, riformando la predetta decisione del Tribunale di Treviso, respinse le domande del Comune nella controversia che sarebbe poi approdata all’esame della Corte di Cassazione, affermando per la prima volta con chiarezza, in una controversia fra familiari dell’assistito ed ente pubblico, che le prestazioni di “assistenza e sorveglianza” pur erogate all’assistita avevano avuto “una funzione meramente marginale rispetto a quella di rilievo sanitario”, sì che queste nel loro complesso dovevano reputarsi a carico del Servizio sanitario nazionale, dichiarando altresì la nullità per mancanza di causa dell’atto d’obbligo unilaterale pur stipulato nel caso concreto. Poiché il Comune che era parte di quella controversia impugnò tale decisione, il caso pervenne al vaglio del Giudice di legittimità. Per riassumere i termini della questione, basterà ricordare che si trattava di un’anziana da tempo affetta da morbo di Alzheimer che, a seguito dell’ingravescenza della malattia, non era stato più possibile continuare ad assistere a domicilio, come pure amorevolmente i familiari avevano fatto sino a quel momento, e che era stata pertanto ricoverata direttamente nel Centro medico dell’immancabile Istituto Costante Gris su richiesta del Comune di residenza che ciò aveva fatto solo a fronte della sottoscrizione di un atto d’obbligo unilaterale da parte del marito. Essendosi il Comune impegnato a versare l’importo corrispondente alla “quota assistenziale” degli oneri di mantenimento direttamente alla suddetta IPAB ed essendosi rifiutato l’obbligato, a distanza di tempo, di proseguire nel pagamento di quanto richiestogli dal Comune a titolo di rimborso di tale importo, l’ente aveva promosso azione di rivalsa nei riguardi di tutti i familiari obbligati agli alimenti. A tanto va soggiunto che, in fatto, il Giudice del merito aveva scrupolosamente accertato la sussistenza dell’anzidetta patologia ed il corteo delle numerose altre ad essa connesse che si erano manifestate nel corso del tempo, nonché le prestazioni sanitarie erogate alla paziente, documentate dalle cartelle cliniche e da svariate certificazioni. Ciò detto in fatto, la Suprema Corte si era trovata ad affrontare due distinte questioni di diritto, dovendo decidere in merito •    alla sussistenza del diritto azionato dal Comune con l’azione di rivalsa e •    alla validità dell’atto d’obbligo unilaterale stipulato nei confronti di quest’ultimo dal marito dell’assistita. Si trattava, quindi, delle due questioni che tipicamente si erano presentate in questo genere di contenzioso. Quanto all’azione di rivalsa è interessante osservare come il Giudice di legittimità non si sia nemmeno interrogato in merito alla perdurante vigenza del disposto dell’articolo 1 della legge n. 1580/1931 (che all’epoca in cui era insorta la controversia non era stato ancora esplicitamente abrogato, come avvenne poi nel 2008), ma si sia interessato esclusivamente di interpretare il disposto dell’art. 30 della legge n. 730/1983, attribuendo valore dirimente al contenuto di quest’ultima disposizione ai fini di stabilire se effettivamente al Comune competesse il diritto di ripetere dai familiari la spesa sostenuta per le controverse prestazioni. Ed è su questo piano che la Cassazione ha risolto la questione, osservando che l’”interpretazione letterale” di quest’ultima norma non solo era chiara ed inequivocabile, ma trovava decisivo conforto in una sua lettura “costituzionalmente orientata”. Infatti, se la citata disposizione testualmente prescrive che “sono a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”, stabilendo quindi che, ai fini dell’accollo alla finanza pubblica, assumano rilievo sanitario anche quelle attività socio-assistenziali che sono “connesse” con prestazioni di natura medica, tale lettura della norma appariva altresì conforme, secondo la Corte, “al nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione”. In altre parole, poiché quello alla salute è un “diritto inviolabile costituzionalmente garantito”, come tale “irriducibile”, non già solo le prestazioni diagnostiche, terapeutiche e tutte le altre  propriamente mediche, destinate a preservare la salute della persona sono a carico del Servizio sanitario nazionale, ma anche quelle prestazioni assistenziali inscindibilmente ad esse collegate e senza le quali non sarebbe nemmeno possibile una loro efficace prestazione. Laddove quindi l’attività assistenziale è necessariamente congiunta a quella sanitaria e si presenta come strumentale a quest’ultima, essa assume pertanto “rilievo sanitario” e deve rimanere a carico del Servizio sanitario. Non a caso, a tal fine, la sentenza ricorda proprio il disposto dell’articolo 1 del D.P.C.M. 8 agosto 1985, per il quale sono “di rilevo sanitario” quelle attività che, pur eseguite con “personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purchè siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute…e si estrinsecano in interventi a sostegno dell’attività sanitaria”. Pertanto, il fatto che tali attività socio-assistenziale vengano erogate in connessione con prestazioni sanitarie, per la Corte, è “di per sé ostativo a qualsiasi azione di rivalsa”, con la conseguenza che il Comune di residenza dell’assistito non ha alcun diritto di rivalersi dei relativi oneri nei riguardi degli obbligati agli alimenti. Questa conclusione, per il Giudice di legittimità, trova inoltre conferma nella già citata giurisprudenza in materia di ripartizione fra enti pubblici degli oneri di assistenza “promiscua” (sanitaria e sociale) ai “malati cronici”, giurisprudenza che la Corte significativamente qualifica come ormai assurta a “diritto vivente”. Con riguardo alla seconda questione che la Corte ha deciso nel caso specifico, la sentenza n. 4558/2012 ha, poi, confermato quella d’appello anche al riguardo della nullità dell’atto unilaterale stipulato dal marito dell’assistita, seppur completandone, più che correggendone, la motivazione. A parte l’impropria definizione dell’atto d’obbligo concretamente sottoscritto come accollo non liberatorio (posto che questo integrava piuttosto una semplice promessa di pagamento fatta al Comune - debitore della prestazione, senza assunzione del relativo debito nei confronti dell’IPAB – creditrice), la Cassazione osserva che lo stipulante aveva offerto piena prova, com’era suo onere di fare, dell’inesistenza del “rapporto fondamentale” sottostante alla promessa di pagamento che aveva stipulato. Ricorda, invero, la Corte che, benché quest’ultima implichi una relevatio ab onere probandi del promissario quanto all’esistenza del rapporto obbligatorio fondamentale fra le parti, il promittente è pur sempre facultato di provare l’inesistenza di quest’ultimo, e così l’invalidità della promessa di pagamento per difetto di causa. Ciò detto, la sentenza rileva che nel caso specifico “l’insussistenza del rapporto obbligatorio  risulta pacificamente acquisita, trattandosi di prestazioni totalmente a carico del Servizio Sanitario nazionale”, ragion per cui l’anzidetta promessa di pagamento risulta affetta da una “totale assenza di una reale funzione economica… vale a dire da un difetto genetico della causa intesa come ragione giustificativa, in concreto, del contratto” e deve quindi reputarsi nulla, ex art. 1418 e 1345 c.c.. In parole più semplici: essendosi il promittente obbligato ad eseguire un pagamento senza che in cambio gli venisse attribuito nulla più di quanto già gli spettava per legge, il negozio è privo di causa e, dunque, nullo. Questa sentenza, come dicevo all’inizio, rappresenta una svolta “storica” nel rapporto fra congiunti dei malati cronici, soprattutto anziani (ma non solo), ed enti obbligati all’assistenza perché, ponendo al centro della problematica il diritto alla salute, ne ricava un principio molto semplice e chiaro: quando all’assistito vengono prestate cure mediche, l’intero onere della sua assistenza deve rimanere a carico delle Aziende Sanitarie Locali, anche se egli si trovi in regime di ricovero e se, in tale situazioni, gli vengano erogate pure prestazioni di altra natura, come quelle riguardanti la sorveglianza, il vitto, l’alloggio, la cura della persone ed altre ancora di natura tipicamente socio-assistenziali (quali normalmente assicurate in tutti gli Istituti di ricovero). In questi casi egli ha, dunque, pieno diritto alla totale gratuità dell’assistenza resagli e nessun onere può essere posto a suo carico, se abbiente, né a carico dei suoi familiari obbligati agli alimenti, se nullatenente. Concludendo, mi sembra opportuno sottolineare come proprio il principio anzidetto ponga in luce che, in un eventuale contenzioso giudiziario, l’assistito o i suoi familiari avranno primariamente l’onere di allegare e di provare lo stato di salute e le prestazioni sanitarie erogate al malato cronico, poiché questi sono i fatti che legittimano il rifiuto di effettuare ai Comuni o ad altri enti quei pagamenti che fossero loro indebitamente richiesti a questo titolo.

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